martedì 21 aprile 2015

LA CHIESA DI SAN VITO


Daniele Cagnin


ecclesiuncula s. Viti cum domuncula, sitam in bisanne in capite Albarii,
prope et versus fucem bisannis(Gregorio De Ponte – 17 agosto 1433)


PREFAZIONE
Come accennato nella “precedente puntata” il compito che mi sono assunto, è quello di narrare le vicende storiche che hanno caratterizzato gli edifici sacri della Foce antica.
Riprendo il viaggio camminando per quei luoghi indicati, in maniera popolare, con il toponimo di Foce Alta.
Su questo “accenno di collina”, un tempo aveva sede una piccola chiesa attualmente scomparsa dal nostro sguardo (perché demolita nella seconda metà del secolo XIX), e dalla memoria storica dei professionisti accademici: lo stesso destino della chiesa dei Santi Nazario e Celso.
Per “accompagnare” il lettore in questo “secondo itinerario”, cercando di catapultarlo in una “visione del passato”, descriverò la collina così come si poteva trovare all’inizio del XV secolo: «un poggio poco lontano dalla città ma abbastanza solitario per carenza di abitanti, sovrastante alla foce del Bisagno, bene arieggiato aperto alla brezza refrigerante del sottostante mare: da lontano doveva mostrarsi “ameno e caratteristico” 1; la chiesa, in senso artistico, faceva da coronamento al colle apparendo “seduta a cavaliere” 2: vi si poteva accedere da due lati, dalla salita che partiva dalla Foce e da una via semipiana proveniente da Albaro». Ai nostri giorni la “gradevole visione” appena fornita è ridotta ad un piccolo angolo dell’attuale via San Vito.
La dedicazione della chiesa, a cui si è fatto riferimento nella descrizione sopra esposta, era san Vito (martire dell’inizio del IV secolo) e tale vi rimase fino all’inizio del XV secolo. Dopo la ristrutturazione di tutto il complesso, operato proprio nel Quattrocento, e la realizzazione di un convento la dedicazione cambia diventando Sant’Ilarione (monaco di origini orientali vissuto a cavallo tra III e IV secolo).
Come per la precedente puntata, per rendere più agevole la lettura di questa “relazione”, ho diviso il lavoro in quattro capitoli, seguendo in maniera cronologica il loro svolgimento: la chiesa di San Vito (fino al secolo XV), il convento di Sant’Ilarione (secolo XV), il “Tramonto” (dal secolo XVI al secolo XVIII) la villa Ollandini (secolo XIX).
E’ doveroso portare a conoscenza, pur se con alcuni limiti, notizie sulla “nostra Foce”: buona lettura.
1 CAPITOLO – LA CHIESA DI SAN VITO
Introduzione storica
La descrizione del territorio presentata nella prefazione, come già accennato, può essere riferita al XV secolo, ma potrebbe essere attribuita anche all’epoca della “fondazione”, quindi almeno a quattro secoli primi. Per avvalorare una tale affermazione dobbiamo prendere in “prestito” alcuni pensieri già espressi nella descrizione della chiesa dei Santi Nazario e Celso.
E’ opinione comune che fino all’inizio del XV secolo la zona della Foce era “disabitata”, l’unica costruzione esistente era un mulino citato in alcuni documenti del XII secolo. Dall’anno 9873i monaci benedettini di Santo Stefano divennero proprietari di un territorio che dalle sponde del Bisagno spaziava al rivo Vernazza, e dalla strada Romea fino al mare4(Cum decimis et primiciis ad supradictam Ecclesiam pertinentibus, per fines et spacia locorum a flusio Vesano usque rivo Vernazola et a via publica usque in mare), quindi anche del “colle di san Vito”.
Pur essendo una “zona di campagna”, appare poco attendibile la definizione del Vigna5che la considera una chiesa rurale: tale definizione è da riferire all’istituzione tipica del Medioevo, finanziata o da un vescovo o da un feudatario che serviva a diffondere il culto cristiano nelle campagne ancora pagane. Quindi non è il caso di San Vito che giuridicamente si ritrovava soggetta alla vicina chiesa di San Nazario: con ogni probabilità la chiesa era concepita come “villeggiatura” 6.


La fondazione
Per analizzare al meglio le vicende storiche è fondamentale, per compiere un’accurata ricerca, consultare le fonti antiche: per ciò che concerne il periodo della “costruzione” i dati a nostra disposizione sono molto scarsi ed alcuni sono da riferire a commenti postumi.
In merito alla “fondazione” della chiesa (o cappella) di San Vito si possono formulare solamente alcune ipotesi: nel precedente paragrafo ho accennato ad un probabile periodo da fissare all’XI secolo, ma non esiste documentazione a supporto di tale tesi.
Gli “storici locali” dell’Ottocento affrontano l’argomento in modo vago: l’Alizieri7è forse il più “sbrigativo” affermando che il tempietto di quanta antichità non so dirvelo; il Remondini8, invece, fissa ad un secolo ben preciso il periodo della fondazione: come luogo sacro a S. Vito abbiamo memorie antichissime che ce lo mostrano anteriore al secolo X, tale spiegazione appare molto evasiva è poco approfondita.
Comparando i dati a disposizione con la precedente ricerca, abbiamo che il secolo XI è l’epoca in cui le chiese di pertinenza dei monaci benedettini, come Santo Stefano, San Siro e Santa Sabina, vennero restaurate: quindi fissare a quest’epoca la fondazione di San Vito non è del tutto inesatto.
Le vicende storiche di San Vito (secoli XI – XIV)
La “notizia” più antica a nostra disposizione è dell’XI secolo (ottobre 10799) ed è riportata nel Cartario Genovese10del 1870, quindi uno “studio moderno” eseguito dal Poch. Nella trascrizione dell’atto è citata la chiesa di San Vito: in loco et fundo Albario prope Ecclesia Sancti Viti (vendita della metà di un pastino11sito presso la chiesa).
Per il XII secolo sono state reperite due date: 1146 e 1193. Nella precedente “pubblicazione” 12, davo notizia che le “concessioni” fatte ai monaci benedettini sulla chiesa di San Nazario, nel secolo X, furono confermate successivamente dai vari pontefici, tutto ciò avvenne anche nel caso di San Vito: l’Alizieri13ci dice che nel 1146 con altre chiese da notarsi più tardi, cedette in balia degli abati di S. Stefano; il Remondini14, espone in maniera approfondita il suo pensiero riferendo che una chiesa o cappella vi esisteva nel 1146, e spettava ai Benedettini di S. Stefano giusta la Bolla di Celestino III Monet nos del 14 febbraio 1193 all’abate Guidone15esistente nell’Archivio Arcivescovile.
Del secolo XIII è stato consultato l’originale di un atto a rogito del notaio Salomone16(redatto in data 20 marzo 1224, per la nomina del Rettore della chiesa dei Santi Nazario e Celso), nel quale è presente come teste, il prete Anselmo della chiesa di San Vito di Albaro (presbiter Anselmi de Sancto Vitto de Albario). I tre storici citati fin ora (Alizieri, Remondini e Vigna) segnalano sempre per il secolo XIII, ma con il beneficio del dubbio, una lapide17datata 1293 della quale non sono certi fosse appartenuta alla chiesa suddetta.
Le notizie relative al secolo XIV, pur essendo limitate e “sparpagliate”, possono essere considerate attendibili perché estrapolate da documenti originali, analizziamole in successione. Per l’anno 1311 sappiamo che il rettore è un certo Prete Giovannino (o Giannino?), lo si può leggere nel Syndicatus18(7 giugno 1311): presbyter Januinus minister Sancti Victi de Albario; il Remondini19ipotizza che San Vito poteva essere succursale di San Nazario, ma risulta poco credibile. Nel 1346 il rettore è un certo Prete Bernardo, così come risulta dalle Compere del Sale20: Ecclesia Sancti Viti de Albario, Domino Presbyter Bernardi. Nel 1360, come citato dal Cambiaso21, le “tasse” spettanti alla chiesa di San Vito di Albaro erano pari a 2 soldi e 6 denari. Nell’Illustrazione del Registro Arcivescovile22è presente, per l’anno 1387, l’Atto di riparto della tassa straordinaria imposta sulle chiese e gli altri luoghi pii dell’Arcivescovato di Genova: per la chiesa in oggetto abbiamo un importo di denari 6; ancora una volta il Remondini23fornisce un suo personale giudizio su tale notizia considerando l’edificio sacro ben poca cosa e la tassa infima fra tutte le chiese della città e sobborghi

Il nome
Nei documenti citati fin ora il nome della chiesa non risulta mai univoco: il più delle volte lo troviamo scritto come San Vito, alcune volte come San Vitto e più raramente come San Vio24(forse in gergo popolare). Lo storico Spotorno25, nelle annotazioni agli Annali del Giustiniani, “corregge” il manoscritto del XVI secolo dicendo leggi Vito.
La decadenza

Sul finire del Trecento la “condizione economica” 26della chiesa, come già indicato, era ben poca cosa, mentre lo stato di conservazione doveva essere molto scadente: il Remondini la considera distrutta: notizia tratta, molto probabilmente, da Jacopo D’Oria27il quale nella sua pubblicazione del 1860 ci narra che sulle ruine dell’antico tempio di S. Vito fu edificata una chiesa (vedi capitolo successivo). L’Alizieri la descrive come tempio distrutto o deserto che fosse.
Queste affermazioni fatte ci riportano ancora una volta sulla strada già percorsa nell’itinerario della chiesa di San Nazario: il periodo che va dal 1387 (anno della tassa straordinaria28di Urbano VI) al 1435 (anno della nomina di un rettore tramite trascrizione con atto notarile) è privo di “notizie”.
Il “buco temporale” evidenziato non può essere spiegato, se non formulando delle ipotesi: non ci sono documenti o tanto meno delle trascrizioni successive che possano farci intuire o comunque interpretare in maniera più concreta il vero motivo di questa “mancanza”.
CAPITOLO 2 – IL CONVENTO DI SANT’ILARIONE


Premessa storica

Come accennato nel precedente capitolo, il secolo XV si apre con la “chiesa in rovina”, benché non sono stati ritrovati dati precisi.
Le “prove documentarie” a nostra disposizione sono state reperite nelle “memorie” del più insigne cronista ecclesiastico del Settecento genovese, Nicolò Perasso, e dallo “studio” del religioso (già citato), Amedeo Vigna, della seconda metà dell’Ottocento, pur se contrastano in alcuni punti.
Queste fonti ci raccontano in maniera dettagliata le vicende storiche inerenti la “ricostruzione” avvenuta nel periodo che va dal 1436 al 147429: nel progetto era anche previsto la realizzazione di un cimitero e l’installazione delle campane. Secondo il Remondini, erroneamente, la conclusione dei lavori è fissata al 1458 a seguito dell’intervento di un certo Padre Giovan Battista Paggi (?).
Alcuni episodi raccontati nelle prossime pagine potranno essere considerati, dal lettore più attento, “intrisi di tecnicismi” giudicandoli superflui: la decisione di inserire questi dati è stata raggiunta per fornire citazioni, estrapolate dai documenti dell’epoca, doverose per un futuro studio più approfondito del presente.
Per maggiore comprensione di questi avvenimenti (durati più di quarant’anni), è necessario prendere in esame i personaggi che “occuparono la scena” del secolo: Andrea di Sant’Ambrogio (l’ideatore del “progetto” e che possiamo considerare il primo periodo), Benedetto Carletti (il periodo delle controversie) e Alessandro Raibaldi da Genova (il periodo della definizione).
La figura di Andrea di Sant’Ambrogio (il primo periodo)
Le condizioni di degrado riferite, furono risolte (parzialmente) grazie all’interessamento di Andrea di Sant’Ambrogio da Genova: ma chi era costui?
L’unico critico che ci narra, anche se brevemente, della figura di questo religioso è il Vigna: buono, pio e intraprendente, priore30del monastero di San Matteo dal 1404 al 1437.
Il frate benedettino, intorno al 143131, ebbe l’idea di “erigere” un nuovo monastero dell’Ordine: possedeva un ragionevole patrimonio da investire, quindi presentò istanza al Pontefice dell’epoca (Eugenio IV: 1431 - 1447) per ottenere la necessaria autorizzazione, che non si fece attendere ed arrivò il 28 novembre 1431.
Dal “rescritto papale”32passò quasi un anno e il 17 novembre 143233un incaricato della curia genovese, Marco De Franchi Burgaro, “diede esecuzione” al decreto dopo aver verificato veritieri i termini della domanda del Padre Andrea, in modo specifico la sezione riguardante l’aspetto economico: il tutto fu trascritto dal notaio Biagio Foglietta34. Il luogo scelto per la fondazione di questo convento fu proprio quello dove esisteva la chiesa di San Vito di proprietà dell’abbazia di Santo Stefano.
Concordati in linea generale i termini generali del progetto (convivenza di dodici monaci35, con l’assegnazione di cento fiorini annui e monastero sotto il titolo di Sant’Ilarione che doveva essere perpetuamente unito, annesso et incorporato, al monastero di San Matteo), c’era da risolvere il problema della proprietà: passarono alcuni mesi di trattative finché il 17 agosto 1433 si decise di “negoziare una permuta” con la quale il convento di Santo Stefano cedeva la proprietà della terra su cui era eretta la chiesa di San Vito, in cambio di tre edifici posseduti da Andrea di Sant’Ambrogio nei pressi della chiesa delle Vigne: tali proprietà gli pervennero nel biennio 1421 - 1422.
L’atto giuridico definitivo fu redatto in data 11 settembre 143336e due giorni dopo il priore Andrea ne prendeva “legale possesso”, anche si dovette risolvere una piccola contesa legale37.
Come già riferito uno degli aspetti giuridici del nuovo convento prevedeva la presenza di almeno dodici religiosi: non furono “reclutati”. Fu richiesto, quindi, ad un religioso di un altro Ordine, fra Benedetto Carletti (Agostiniano) di concorrere alla nuova fondazione: fu domandata la necessaria autorizzazione pontificia che fu conseguita il 24 marzo 1435, anche se gli fu limitata l’operatività in campo economico e nelle “cariche ecclesiastiche”.
L’impresa sembrò arenarsi definitivamente quando nei primi mesi del 1437 il Padre Andrea morì lasciando i lavori appena iniziati: su questa notizia i critici, fin ora consultati, non concordano riferendo ognuno una “versione personale”. L’Alizieri è possibilista sul fatto che fosse anche intervenuto un problema economico: ma le sustanze o la vita non gli bastarono che a trarne le mura un dieci palmi dal suolo38; il Remondini commette un piccolo errore di trascrizione: ma colto l’Abbate da morte quando i muri si alzavano appena da terra un dodici palmi come si rileva da epigrafe riportata dal detto D’Oria39. Forse il più inequivocabile è il Perasso: ci riferisce che il decesso avvenne prima di ultimare la detta fabbrica alla quale altro non mancava che il tetto40.
La figura di Benedetto Carletti (il periodo delle controversie)
Il “naturale successore” di Andrea di Sant’Ambrogio, il Padre Carletti (designazione non condivisa dai frati di San Matteo ?), diventerà il protagonista dei successivi quarant’anni.
Il primo atto formale del Padre Carletti fu quello di richiedere la riduzione del numero dei monaci conviventi nel convento, la “separazione giuridica” dal convento di San Matteo (separato dal sudetto di S. Matteo dipendente dal medemo, ma non già unito, ne’ incorporato) e l’assegnazione del titolo di Priore (Priore perpetuo).
Il 13 maggio 143741il Pontefice accolse il “ricorso” incaricando dell’attuazione del decreto tre prevosti locali (il rettore della chiesa di San Giorgio, il rettore della chiesa dei Santi Nazario e Celso42e il prevosto della chiesa dei Santi Cosma e Damiano), i quali il 3 luglio 1437 (presa ufficiale di possesso del vecchio e del nuovo) trascrissero il verbale: “l’insediamento” richiedeva (anche se non previsto dalle disposizioni emanate) un’autorizzazione della curia locale, che fu deliberata l’11 luglio dello stesso anno dal vicario arcivescovile.
L’operato del Prevosto della chiesa dei Santi Cosma e Damiano (di nome Avendamo: il Vigna ci riferisce che commise il giudizio della sorta vertenza), non piacque al priore del convento di San Matteo e alla famiglia D’Oria, i quali per tutelare i propri profitti fecero appello al Pontefice: è doveroso ricordare che ci troviamo nel periodo in cui la cristianità era alle prese con il famoso “Concilio di Riunificazione” e quindi Eugenio IV, il 9 novembre 1437 delegò dell’”indagine conoscitiva” sulla disputa insorta, l’Arcivescovo di Genova il quale, ricevuta la “Bolla di Commissione”43per il Concilio di Ferrara, trasferì l’incartamento al Canonico della Cattedrale con un atto del 6 febbraio 1438 rogato dal notaio Foglietta44.
I due anni successivi furono condizionati nel risolvere la controversia45sopra citata: la situazione fu risolta il 25 giugno 144046con una sentenza47nella quale il Carletti rinunciava ai redditi da priore riservandosi soltanto settantacinque genovini annui con l’usufrutto della terra annessa alla cappella.
Passarono incomprensibilmente dodici anni e nel 1452 (6 gennaio) fu richiesto un ulteriore “chiarimento sugli accordi del 1440”: per l’esecuzione della nuova disposizione, emanata dal Pontefice Nicolo V il 19 luglio 145348, fu concluso un patto con il priore di San Matteo e i “governatori dell’Albergo” 49della famiglia D’Oria.
L’anno successivo alla sentenza (1454), alcuni “abitanti della zona” (rappresentati da quattro persone: Leonardo Giustiniani, Antonio De Franchi, Pietro De Franchi e Gerolamo Castagnola) contestarono il “comportamento” del Padre Carletti: fu “accusato” di non celebrare i Divini Offici e di non essere stato capace ad introdurre i concordati sei monaci. In data 13 marzo 1455 fu redatto un atto relativo ad una probabile “concessione” del monastero all’Ordine di San Gerolamo di Fesulis, e l’impegno a terminare i lavori: tale notizia non è riportata dal Vigna. Il Padre Carletti venuto a conoscenza di tale iniziativa fu particolarmente irritato, ma riuscì a concordare un “aspetto giuridico” per il quale accettando la nuova condizione sarebbe rimasto Priore.
Nei successivi venti anni i lavori rimasero fermi allo stato di avanzamento del 1437: non fu terminata la riparazione50del monastero e della chiesa (come da obblighi della Bolla del 1440), il tutto dovuto ad una redditività diversa, come accennato settantacinque genovini annui: lui stesso impossibilitato a rialzarsi, che a stento provvedeva ai suoi personali bisogni51.
Nel frattempo alcuni laici che passavano il periodo estivo nella zona della Foce Alta, richiesero al Carletti un’area nei pressi della chiesa: con questo accordo si sarebbero reperiti i fondi necessari al proseguimento dei lavori, e soprattutto si provvedeva al “cura delle anime” chiedendo “l’intervento” di un ulteriore Ordine Religioso: l’atto fu trascritto dal notaio Andrea De Cairo il 28 ottobre 147252.
Passati circa quarant’anni dalla morte di Andrea Sant’Ambrogio, questo “secondo periodo” si chiude con la situazione immutata ed un ulteriore “passaggio di consegne”: il giorno 8 giugno 147453il complesso di San Vito d’Albaro fu offerto ai frati Carmelitani, nella persona del Procuratore fra Giovanni da Prato, i quali pochi giorni dopo l’atto di possesso rinunciarono, secondo il Giscardi54senza nemmeno che vi si potessero abitare.
La figura di Padre Alessandro Raibaldi (il periodo della definizione)
La rinuncia dei frati Carmelitani “accostò” al complesso religioso di Sant’Ilarione l’Ordine dei Domenicani (già presenti nella vicina chiesetta di San Luca), i quali rimasero proprietari fino all’inizio del XIX55secolo.
Questo ultimo quarto del XV secolo può essere sintetizzato in quattro punti significativi: conclusione dei lavori di ricostruzione, fermi da oltre quarant’anni, benché nel 1510 si riscontra la notizia (tratta da una ricevuta di pagamento per un certo Simone architetto) di ulteriori lavori; ottenimento del parere favorevole da parte dei priori di San Matteo e di Sant’Ilarione; confermare priore il Padre Carletti, fino alla sua morte, avvenuta nel 1476; successivamente il “priorato” sarebbe passato all’Ordine dei Domenicani56(descritti come Ordine dei Predicatori), nella persona del Padre Alessandro Raibaldi da Genova (uomo riputatissimo per sapienza di consiglio e per santità di costumi57): sarebbero stati obbligati a donare, nella Domenica delle Palme, al Priore di San Matteo e alla famiglia D’Oria, due “ceri rossi” d’una libra l’uno e celebrare una messa in suffragio della famiglia D’Oria.
L’ufficialità dell’evento fu formalizzata il 26 luglio 147558quando il Pontefice Sisto IV concesse il possesso del complesso che fu nuovamente intitolato a San Vito.
Il Padre Raibaldi morì nel 1502 e il possesso passò ai Domenicani Osservanti.
CAPITOLO 3 – IL TRAMONTO

Le ristrutturazioni

I nuovi proprietari (i frati Domenicani) completarono il restauro del complesso monastico rendendolo decoroso; da alcune descrizioni ottocentesche apprendiamo le dimensioni della chiesa che era ad una sola navata, e misurava circa nove metri di larghezza, circa venti metri di lunghezza, la dimensione del presbiterio era di dieci metri. Erano presenti tre altari, i due minori in legno, uno dei quali dedicato al Santo Rosario, nel quale era presente una statua in legno della Madonna59. L’altare maggiore era di calce: nel 1585 furono costruite, grazie a Benedetto Giordani, delle balaustre in marmo mentre il pavimento fu eseguito in mattoni.
Come tutte le chiese di Genova anche San Vito ricevette, nel 1582, l’ispezione60del Visitatore Apostolico della Curia (monsignor Francesco Bossio, Vescovo di Novara): furono emanati dei decreti che imponevano di “risolvere” alcune situazioni ritenute non a norma tra cui il tabernacolo, i tre altari, le panche, il confessionale e la sacrestia.
Nel 1643 i frati del convento di Santa Maria di Castello inviarono un tecnico (un converso perito in quell’arte) per constatare l’entità dei presunti danni: ma con scarsi mezzi a poco aveva provvisto61.
Passato quasi un secolo dalla già citata “ispezione” sappiamo che a seguito del bombardamento di Luigi XIV, nel 1684, la chiesa era in condizioni cadenti e necessitava di un urgente restaurato. Tale situazione fu parzialmente risolta, nel 1690, dal priore del convento di Santa Maria di Castello, Vincenzo Acquarone, anche se il “capitale” messo a disposizione era di lieve entità. Alla ristrutturazione concorse, così, anche l’Arcivescovo di Genova Vincenzo Gentile, il quale essendo stato frate a Santa Maria di Castello, conosceva il sito di San Vito nel quale amava ritirarsi a quando a quando colà in solitudine per ritemprarvi lo spirito affaticato dalle cure del suo ministero62.
Nel 1661 la famiglia D’Oria espresse il desiderio che fosse ricordato, dalle generazioni future, tramite un’epigrafe, il passaggio di proprietà ai domenicani; la scritta era la seguente: GRATUM ANIMUM NULLA OCCUPAT PRAESCIPTIO. ECCE ADHUC POST DUA SAECULA HUIUS LOCI AB ILL.MA FAMILIA DE AURIA RECOGNOSCIT CESSIONEM DOMINICA RELIGIO UT QUAE PERENNANTUM INSTRUAT MEMORIAE HOC LAPIDE GAUDE63 FIRMARI AB EIUSDEM GUBERNATORIBUS DD. BAPTA QUONDAM JO. LUCAE IGNATIO ET FRANCISCO M. A. D.  BRANCALEONIS ANNO DOMINI MDCLXI.
Nel 1754 fu deciso di impegnare il “ricavato della rendita” in un ulteriore restauro: il 10 marzo 1770 fu richiesta una “consulenza” circa la possibilità di erogare cento cinquanta scudi romani per i lavori; un’ulteriore somma fu investita, nel 1778, per la completa ristrutturazione del convento.
Le vicende storiche
Le uniche “informazioni” disponibili riguardano il secolo sedicesimo.
La chiesa fu utilizzata nei tempi della villeggiatura estiva: per il 1606 si ha notizia della celebrazione di due messe al giorno.
Nel periodo della pestilenza del 1528 o 153264, fu inviato un nutrito numero di frati in San Vito: molti morirono.

Nel 1579 il Priore di Santa Maria di Castello (dal quale la chiesetta era dipendente) inviò, per la cura delle anime, quattro frati. Un’ulteriore notizia reperita è del 1530 per un contenzioso su un danno arrecato al muro di cinta da parte di un certo Pier Antonio di Albaro.
L’elezione del Vicario, fin dagli inizi veniva fatta dal priore di Santa Maria di Castello, nel 1592 divenne un diritto esercitato dal “consiglio degli anziani”, da quell’anno abbiamo un elenco (inserito in appendice), il quale non va oltre al 1651.

CAPITOLO 4 – VILLA OLLANDINI

La chiesa agli inizi dell’Ottocento

Sul finire del secolo XVIII l’intera Europa è “vittima” della Rivoluzione Francese e delle idee derivanti dall’Illuminismo: questo episodio fu l’ultima illusione di libertà per molti governanti italiani.
Nel 1796, a seguito della discesa di Napoleone in Italia, la Repubblica di Genova passò sotto la giurisdizione francese e successivamente, nel 1805, ne diventò provincia: iniziarono da questo momento ritorsioni contro gli Ordini Religiosi che si conclusero con la legge di soppressione.
Tale situazione portò alla confisca dei beni avvenuta con Decreto del Direttorio Esecutivo il 6 aprile 1798: anche la chiesa di San Vito rientrò in questa narrazione, anche se sappiamo (vedi nota 55) che nel 1808 i proprietari sono ancora i frati Domenicani.
La trasformazione in abitazione
Nella seconda metà del secolo il Vigna ebbe la possibilità di vedere l’edificio sacro (1855): ci riferisce che era stato destinato a magazzino di legname. Anche il Remondini si recò, nel 1862, nella chiesa vuota descrivendola con buona precisione.
L’antica struttura fu mantenuta fino al 1879: a quei tempi la proprietà passò ad un personaggio illustre Raffaele Rubattino (presente nella Spedizione dei Mille) che la trasformò, insieme alla moglie Bianca Rebizzo, in un elegante abitazione secondo il “gusto neogotico” (a guisa di castello con a lato una svelta torre65). Dall’Alizieri apprendiamo che all’interno furono mantenuti alcuni affreschi eseguiti da Lazzaro Tavarone (1556 – 1641): un’immagine di Sansone tradito da Dalila; nel salotto erano presenti altre figure bibliche. Anche all’esterno furono mantenute alcune caratteristiche dell’antico cenobio tra cui le strisce bianche e nere e due antichi bassorilievi in pietra di promontorio: e vel dichiari un portale ch’ei godette di porsi all’ingresso; preziosa pietra di Promontorio e leggiadro intaglio del cinquecento; vedreste tuttora le arcate leggermente acute, o i cordoni, e le imposte, e le mensole, e fin le patere66scolpite ad immagine sacre, che mostrano qual’ella venisse riedificata nell’epoca che sopra ho scritto.67
A seguito della morte di Rubattino (1 novembre 1881) la proprietà passò alla famiglia Hofer e successivamente ai marchesi Ollandini.
Nella notte tra il 22 e il 23 ottobre 1942 il bombardamento alleato distrusse l’abitazione rendendola inutilizzabile: uno spezzone incendiario aveva colpito il tetto dell’edificio, generando un crollo a catena che aveva distrutto i piani sottostanti.
L’edificio attuale
La “ricostruzione” fu caratterizzata da un complesso iter burocratico dal quale veniva concesso un’aerea minore rispetto a quella originale pur mantenendo inalterato il volume preesistente.
La scelta del progettista ricadde su una persona molto affermata dell’architettura genovese: Robaldo Morozzo della Rocca.
Il progetto prevedeva di ricreare lo sfaldamento creato dall’ordigno bellico ed una grande superficie vetrata curvilinea sul lato a mare mantiene la forma sinuosa che potevamo riconoscere nel rudere68.
La nuova costruzione, visibile anche ai nostri giorni, ebbe termine nel 1956.
APPENDICE (Elenco dei Vicari di San Vito – secolo XVII)
1592    Padre Domenico Ceva di Genova
1594    Padre Ludovico Adorno di Genova
1598    Padre Pier Martire Dondo di Voltri
1600    Padre Filippo Malvasia di Genova
1607    Padre Antonio di Capriata
1610    Padre Reginaldo Zignago
1610    Padre Gio Ambrogio Di Negro
1612    Padre Filippo Malvasia
1614    Padre Gio Crisostomo di Diano
1618    Padre Agostino Alessi di Genova
1619    Padre Reginaldo Zignago
1621    Padre Serafino Pasqua di Genova
1627    Padre Deodato Centurione di Genova
1629    Padre Gio Domenico Ghilini di Genova
1630    Padre Gio Batta
1631    Padre Deodato Centurione di Genova
1638    Padre Filippo Goano di Torriglia
1640    Padre Paolo Vincenzo Centurione
1643    Padre Gio Ambrogio Ghilini
1644    Padre Gio Batta Salvago di Genova
1646    Padre Deodato Centurione di Genova
1646    Padre Angelo Tasso di Genova
1648    Padre Filippo Goano di Torriglia
1649    Padre Deodato Centurione di Genova
NOTE
CAPITOLO 1
1          RAIMONDO AMEDEO VIGNA, Le chiese rurali di San Luca, San Vito e di Santa Chiara in Albaro in Atti Società Ligure di Storia Patria, Vol. XX, p. 467, Genova 1888 – 1896.
2          Idem, p. 468.
3          NICOLO’ PERASSO, Memorie e notizie di chiese e opere pie di Genova, manoscritto, c. 246 – 249 (A.S.G., Manoscritti secolo XVIII, numero 844).
FEDERICO ALIZIERI, “Guida Artistica per la cittá di Genova”, Genova 1875, p. 583.
ANGELO E MARCELLO REMONDINI, Le Parrocchie dell’Archidiocesi di Genova, Genova 1893, p. 3.
Anche gli “esperti” dell’Ufficio Storico delle Belle Arti del Comune di Genova citano la data del maggio 987.
4          F. ALIZIERI, Guida artistica, p. 582.
CF. LUIGI TOMMASO BELGRANO, Atti Società Ligure di Storia Patria: «Cum decimis et primiciis ad supradictam Ecclesiam pertinentibus, per fines et spacia locorum a flusio Vesano usque rivo Vernazola et a via publica usque in mare».
CF. Manoscritto Biblioteca Universitaria, N° 255, Miscellaneo di scritture ecclesiastiche: «Domenicalij, quae ipsi qui abitavi, et habitaverint in Civitate Januae et in Burgo, et in Castro, in praesentibus quod in futuris temporibus a flumine Besagni usque flumen Sturlae».
5          R. A. VIGNA, Le Chiese Rurali, p. 466.
6          Di questo avviso è il Perasso, nel Settecento, il quale ci narra che serve di luogo di ricreazione nell’estate.
Il Remondini, invece, ha un’idea diversa: I PP. Domenicani l’ebbero sempre sino alle rivolture del secolo scorso come un luogo di ritiro per l’autunnale stagione.
7          F. ALIZIERI, Guida artistica, p. 577.
8          ANGELO REMONDINI, Le Parrocchie suburbane di Genova, Genova 1882, p. 31.
9          Consultando lo studio di Paolo Novella (Chiesa di San Vito in La Settimana Religiosa 1931, p. 488), la data citata è il 1019: probabilmente un errore di stampa.
10        Cartario Genovese, in Atti della Società Ligure di Storia Patria, Vol. II – parte Iª, Genova 1870, p. 182.
11        Per pastino si intende la coltivazione di una vigna in un terreno ben dissodato.
12        DANIELE CAGNIN, La Chiesa dei SS. Nazario e Celso, febbraio 2015, (http/anticafoce.blogspot.it).
13        F. ALIZIERI, Guida artistica, p. 577.
14        A. REMONDINI, Le Parrocchie suburbane, p. 31.
15        E’ presente anche in alcuni documenti delle pergamene del “monastero di Santo Stefano” presenti all’Archivio di Stato di Genova.
16        A.S.G., Notari Antichi – Magister Salomonis, Cartolare – n° generale d’ordine 14, c. 175, atto 872.
17        HOC OPUS FECIT FIERI DOMINA CLARIXIA DE GRIMALDIS UXOR DOMINI MANUELIS JACHARIE AD HONOREM DEI ET BEATI JOHANNIS BAPTISTE ET MARIE MAGDALENE MCCLXXXXIII.
18        Il Syndicatus è una procura che il clero dell’Arcidiocesi Genovese, fece nei confronti del Prete Rollando Della Pietra, Cappellano della Metropolitana, com’è attestato negli atti del Notaio Leonardo De Garibaldo in data 7 giugno 1311. CF. Giornale Ligustico, p. 6, Genova 1879.
19        A. REMONDINI, Le Parrocchie suburbane, p. 31.
20        COMPERE DEL SALE, ANNO 1346 - colonna C (A.S.G., COMPERE MUTUI, n° generale d’ordine 7/7).
21        DOMENICO CAMBIASO, “L’Anno Ecclesiastico e le Feste dei Santi in Genova, nel loro svolgimento storico”, Genova 1917.
22        LUIGI TOMMASO BELGRANO, Illustrazione del Registro Arcivescovile in Atti Società Ligure di Storia Patria, VOL. II, p. 363, Genova 1870.
23        A. REMONDINI, Le Parrocchie suburbane, p. 32.
24        GIACOMO GISCARDI, Origine delle Chiese e Monasteri, e luoghi pii della Città, e Riviere di Genova, ms. secolo XVIII, c. 297 (B.B.G., mr II 4.9).
25        AGOSTINO GIUSTINIANI, Annali della Repubblica Genovese, ms. 1537 riveduto dallo Spotorno nel 1846, p. 83 (B.B.G., F.V. Gen B 308/309).
26        Bisogna ricordare che la proprietà del terreno circostante la chiesa era di pertinenza dell’abbazia di Santo Stefano la cui rendita non oltrepassava i sette genovini.
27        JACOPO D’ORIA, La Chiesa di San Matteo in Genova, Genova 1860, p. 101.
28        L. T. BELGRANO, Illustrazione del Registro Arcivescovile, p. 363.
CAPITOLO 2
29        R. A. VIGNA, Le Chiese Rurali, p. 485. A. REMONDINI, Le Parrocchie suburbane, p. 32.
30        J. D’ORIA, La Chiesa di San Matteo, p. 82.
31        Dal manoscritto Chiese di Genova (A.S.C.G., Manoscritti N° 50, c. 823), apprendiamo una data diversa, 1410.
32        Nel corso dei secoli il lavoro della Cancelleria Apostolica aumentò la sua mole di lavoro: la gente usava rivolgersi al Pontefice per la revisione di una sentenza ingiusta o che considerava ingiusta.
La numerosa quantità di “incartamenti” veniva vagliata dagli scriptores domini pape, i quali dovevano redigere i documenti in latino secondo il complesso codice di formule in uso nella Cancelleria chiamato stilus curiae. Prima di essere spedito il “fascicolo” passava attraverso numerose fasi di revisione: innanzitutto bisognava scrivere la minuta con il contenuto essenziale del documento, poi si effettuava una prima verifica per eliminare sviste involontarie ed errori di concetto, successivamente si trascriveva in bella copia con una scrittura accurata, la quale veniva nuovamente riletta. L’ultima “operazione” era quella della sigillatura effettuata dai bullatores. (CF. BARBARA FRALE, L’inganno del gran rifiuto, Roma 2013, pp. 67 – 69).
33        Dal Perasso (Memorie e notizie di chiese e opere pie di Genova, manoscritto secolo XVIII, c. 493 recto - A.S.G.S.S., Manoscritti, numero 844) apprendiamo una diversa data: 26 agosto 1432, atto rogato dal Noatio Gregorio Ponte, detto atto non è stato ritrovato nella filza relativa del notaio in questione.
Nella pubblicazione del Remondini è citato il 1423: sicuramente è un errore di stampa, ma ugualmente ripreso dal Novella.
34        A.S.G., Notari Antichi – Biaggio Foglietta, filza 2 – n° generale d’ordine 565: l’atto fu rogato il giorno 21 novembre 1432, ed è contrassegnato dal numero 362 (366 vecchia numerazione).
35        N. PERASSO, Memorie e notizie, c. 493 recto: nigri coloris habitum deferentes.
36        A.S.G., Notari Antichi – Gregorio De Ponte, Atto n° 126 (n° 103 vecchia numerazione), filza 9 – n° generale d’ordine 789.
37        Fin dal 1420, la terra circostante la chiesa di San Vito era stata locata a Battista Delfino dei Signori da Passano. Quando morì il contratto fu ereditato dalla moglie Isabella Maruffo, la quale non potendo coltivare il podere, e non potendo affrontare la spesa legale per dirimere la controversia intervenuta con il priore Andrea, accettò di buon grado l’offerta di un luogo nelle Compere di San Giorgio, per tutta la sua vita e per quella della figlia: il tutto avvenne il 19 gennaio 1434.
38        F. ALIZIERI, Guida artistica, p. 577.
39        A. REMONDINI, Le Parrocchie suburbane, p. 32: detta notizia è tratta direttamente dallo scritto di Jacopo D’Oria.
40        N. PERASSO, Memorie e notizie, c. 493 verso.
41        Idem; R. A. VIGNA, Le Chiese Rurali, p. 485: Col precedente decreto pareva dovesse riposare tranquillo nella sua sede il novello priore, e dare opera sollecita alla costruzione della chiesa e del cenobio.
42        Prete Giacomo Aschero (CF. D. CAGNIN, La Chiesa dei SS. Nazario e Celso).
43        Era la Bolla emanata dai Pontefici in cui era contenuto il “giuramento di fedeltà”.
44        Nella filza relativa al notaio in questione (A.S.G., filza 3 – n° generale d’ordine 566), l’atto non è stato ritrovato: la filza è molto disordinata e in via di studio.
45        Il giudizio del Vigna in merito a questa controversia è il seguente: «Le ragioni addotte dagli avversarii suoi dovevano essere di non leggiero valore, se il Carletti stesso innanzi che il giudice delegato a sentenziare proferisse il lodo, venne ad un’amichevole transazione colla parte contraria, e il 25 giugno 1440 firmò l’instrumento, a mezzo del quale rinunziò a tutti i redditi del priorato, presenti e futuri».
Dal Perasso apprendiamo quanto segue: «Agitatasi per tanto con pari fervore fra dette parti sudetta controversia, e la medema diventata più spinosa di quello non si supponevano».
46        Dal manoscritto del Perasso possiamo ricavare alcune date, precedenti a questa citata (tra cui anche quella del 6 febbraio 1438; vedi nota 44), che il Vigna non menziona, forse perché non conosceva le Memorie del cronista settecentesco, in quanto il materiale archivistico non era presente a Genova. Riporto fedelmente la cronaca:
… trattorlo d’ultimarla con qualche amichevole Composizione [componimento che prevede l’appianamento di una lite o vertenza] qual volendo che fosse stabile e permanente, supplicarono perciò giustamente il suddetto Pontefice Eugenio quarto voler compiacersi d’avocare [assumersi] a se’ la caosa stessa e delegare detto Prevosto de Santi Cosma e Damiano per la licenza da darsi e di fare detto Convegno [riunione], et avendo esso Pontefice aderito all’Istanza con sua Bolla de tredici maggio dell’anno mille quattrocento trentanove ordinò al mentonato Prevosto che concedesse la dimandata licenza di far auctoritate Apostolica.
47        Vedi nota 44.
48        A.S.G., Notari Antichi – Andrea De Cairo, Atto n° 249, filza 9 – n° generale d’ordine 789: Approbatio et Confirmatio Comprositionis et Validatio collationis.
Nell’atto contrassegnato con il numero 157 e datato 23 luglio, il padre Carletti è presente come teste. Per maggiori informazioni su questo atto confrontare le seguenti fonti: N. PERASSO, Memorie e notizie, c. 503 verso; R. A. VIGNA, Le Chiese Rurali, p. 502.
49        ALBERGO: è il nome usato nel periodo medievale per indicare una sorte di consorzio di famiglie nobili, legate da vincoli di sangue o da comuni interessi economici, spesso abitanti in palazzi vicini.
50        R. A. VIGNA, Le Chiese Rurali, p. 504: «aveva la fabrica di una modesta casa a uso proprio, ma la chiesa nuova abbandonò al punto in cui trovossi, cioè senza tetto, ed esso funzionava nell’altra cappella rurale […] nel frattempo parte cadenti, parte demoliti del tutto».
51        Idem.
52        A.S.G., Notari Antichi – Andrea De Cairo, Atto n° 180, filza 9 – n° generale d’ordine 807.
Per maggiori informazioni su questo atto confrontare le seguenti fonti: N. PERASSO, Memorie e notizie, c. 511 verso; R. A. VIGNA, Le Chiese Rurali, p. 505.
53        A.S.G., Notari Antichi – Andrea De Cairo, Atto n° 316, filza 9 – n° generale d’ordine 809: «fabbricarsi detta Loggia con sua piazza».
Per maggiori informazioni su questo atto confrontare le seguenti fonti: N. PERASSO, Memorie e notizie, c. 515 verso.
54        GIACOMO GISCARDI, Origine delle Chiese Monasteri, e Luoghi Pii della città e Riviere di Genova, ms. del secolo XVIII (B.B.G., mr II 4.9), c. 297.
55        Carta Topografica dei beni dal Bisagno della Foce a Santa Tecla (1776 – 1808) – A.S.G., n° E.01.002.1238.
56        Il Vigna dice che erano i frati di Santa Maria di Castello (notizia presente anche nel già citato manoscritto Chiese di Genova), Il Paganetti (che ebbe modo di vederli di persona) di San Domenico.
57        F. ALIZIERI, Guida Artistica, p. 577.
58        Molti critici confondono la data di “ingresso” del Padre Raibaldi nella chiesa di San Vito (1475; cf. Atti Società Ligure di Storia Patria, Volume IV, p. 120), con la data della morte.
Il primo a non riportare la sequenza degli eventi è, agli inizi del Settecento, BARTOLOMEO MONTALDO (Sacra ligustici coeli sidera sanctitate, pontificia dignitate, religionumque praefctura generali clasriola, chronologica, manoscritto del 1732, c. 112); la stessa imprecisione la troviamo nei SAGGI CRONOLOGICI del 1743, nel manoscritto del Giscardi ed è ulteriormente riferita da GOFFREDO CASALIS (Dizionario geografico statistico commerciale degli stati di S. M. il Re di Sardegna, VOL. 7, Torino 1840).
CAPITOLO 3
59        La statua, nella seconda metà del secolo XIX, fu trasferita nella chiesa dei SS. Pietro e Bernardo (CF. VIGNA, Le Chiese Rurali, p. 576).
60        FRANCESCO BOSSIO, Liber Visitationum, ms. 1582, c. 233 (A.S.G., Manoscritti, N° 547).
61        VIGNA, Le Chiese Rurali, p. 539.
62        Questa notizia è possibile leggerla anche in Atti Società Ligure di Storia Patria, Volume IV, p. 120: «Quello di San Vito ebbe a patire gravi danni nel troppo noto bombardamento del 1684; ma l’Arcivescovo Giulio Vincenzo Gentile, che assai compiacevasi di quel ridente soggiorno, volle poco stante che fosse ristaurato a sue spese».
Dal Remondini riscontriamo, invece, il solito errore di data «Monsignor Giulio Vincenzo, Arcivescovo di Genova, nel 1681, il quale a sue spese ne fece ristorare a sue spese ne fece ristorare i danni, che ebbe a partire nel 1684 dal bombardamento avuto da Luigi XIV».
63        Il Remondini riporta l’errore che era presente nella lapide, aggiungendo, però, che la trascrizione esatta doveva essere GAUDET.
64        Una curiosità: durante la peste del 1532, il Senato della Repubblica, con a capo il “Serenissimo” Battista Spinola (figlio di Tommaso), si recò nella chiesa di Nostra Signora dei Servi ad implorare l’aiuto di Maria Addolorata per la cessazione del tremendo flagello davanti alla tavola di Barnaba da Modena, visibile ancora ai giorni nostri nell’attuale chiesa dei Servi (CF. DANIELE CAGNIN, Guida Storica Artistica Santa Maria dei Servi, Genova 2002, p. 16).
CAPITOLO 4
65        PAOLO NOVELLA, Chiesa di San Vito in La Settimana Religiosa 1931, p. 488.
66        In epoca antica era una coppa per le libagioni, rotonda e piatta, che serviva anche per i sacrifici agli dei. Diventò motivo di decorazione assai frequente nell’architettura del primo Rinascimento.
67        F. ALIZIERI, Guida Artistica, p. 578.
68        LORENZO BAGNARA, Villa Ollandini. Un’architettura organica nella Genova degli anni ’50, Rivista la Casana, Genova 2012.




BIBLIOGRAFIA
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ALIZIERI FEDERICO, “Guida Artistica per la cittá di Genova”, Genova 1846 e 1875.
CAMBIASO DOMENICO, “L’Anno Ecclesiastico e le Feste dei Santi in Genova, nel loro svolgimento storico”,
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Cartario Genovese, in Atti della Società Ligure di Storia Patria, Vol. II – parte Iª, Genova 1870. (anche in formato digitalizzato)
CASALIS GOFFREDO, “Dizionario Geografico Statistico Commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sardegna”, (anche in formato digitalizzato)
Chiese di Genova, manoscritto secolo XVIII.
DE SIMONI LAZZARO, “Le Chiese di Genova”, Genova 1948.
DORIA JACOPO, “La Chiesa di San Matteo in Genova”, Genova 1860. (in formato digitalizzato)
GISCARDI GIACOMO, “Origine delle Chiese, Monasteri e luoghi pii della città e riviere di Genova”,
manoscritto secolo XVIII. (in formato digitalizzato)
GIUSTINIANI AGOSTINO, “Annali della Repubblica Genova”, Genova 1537 (riedizione del 1846).
Illustrazione del Registro Arcivescovile, in Atti della Società Ligure di Storia Patria, Vol. II – parte IIª, Genova 1870.
MONTALDO BARTOLOMEO, “Sacra Ligustici Coeli Sidera”, manoscritto 1732.
NOVELLA PAOLO, “Settimana Religiosa”, Anni: 1931.
ODICINI GIOVANNI, L’Abbazia di Santo Stefano, Genova 1974.
PAGANETTI PIETRO, “Storia ecclesiastica della Liguria”, Roma 1766.
PERASSO NICOLO’, “Memorie e notizie di chiese ed opere pie di Genova”, manoscritto 1770 ca.
RATTI CARLO GIUSEPPE, “Istruzione di quanto può vedersi di più bello in Genova”, Genova 1780.
REMONDINI ANGELO, “Parrocchie Suburbane di Genova”, Genova 1882.
SCHIAFFINO AGOSTINO, “Conventi, monasteri chiese e ordini religiosi”, manoscritto del secolo XVIII.
Syndicatus Ecclesiae Januensis MCCCXI in Giornale Ligustico, Genova 1879.
VIGNA RAIMONDO AMEDEO, “Le Chiese rurali di San Luca, San Vito e di Santa Chiara in Atti della Società Ligure di Storia Patria, Vol. XX, Genova 1888 – 1896.



3 commenti:

  1. Be, però qualche foto della vecchia chiesa di S. Vito potevate anche metterla...

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  2. Non può esistere la documentazione fotografica relativa a questo edificio

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  3. Esiste una fotografia della seconda metà dell'Ottocento, relativa alla conclusione della costruzione del caseggiato di Via Cecchi (civico 2), nella quale si intravede in lontananza il profilo di un'edificio simile ad una chiesa: in quest'epoca San Vito era stata trasformata in villa.

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