Daniele Cagnin
… ecclesiuncula s. Viti cum domuncula, sitam
in bisanne in capite Albarii,
prope et versus fucem bisannis … (Gregorio
De Ponte – 17 agosto 1433)
PREFAZIONE
Come
accennato nella “precedente puntata” il compito che mi sono assunto, è quello
di narrare le vicende storiche che hanno caratterizzato gli edifici sacri della
Foce antica.
Riprendo il
viaggio camminando per quei luoghi indicati, in maniera popolare, con il
toponimo di Foce Alta.
Su questo
“accenno di collina”, un tempo aveva sede una piccola chiesa attualmente
scomparsa dal nostro sguardo (perché demolita nella seconda metà del secolo
XIX), e dalla memoria storica dei professionisti accademici: lo stesso destino
della chiesa dei Santi Nazario e Celso.
Per
“accompagnare” il lettore in questo “secondo itinerario”, cercando di
catapultarlo in una “visione del passato”, descriverò la collina così come si
poteva trovare all’inizio del XV secolo: «un poggio poco lontano dalla città ma abbastanza solitario per carenza
di abitanti, sovrastante alla foce del Bisagno, bene arieggiato aperto alla
brezza refrigerante del sottostante mare: da lontano doveva mostrarsi “ameno e
caratteristico”
1; la chiesa, in senso artistico, faceva da coronamento al colle
apparendo “seduta a cavaliere” 2: vi si poteva accedere da due lati, dalla
salita che partiva dalla Foce e da una via semipiana proveniente da Albaro». Ai nostri giorni la “gradevole visione”
appena fornita è ridotta ad un piccolo angolo dell’attuale via San Vito.
La
dedicazione della chiesa, a cui si è fatto riferimento nella descrizione sopra
esposta, era san Vito (martire dell’inizio del IV secolo) e tale vi rimase fino
all’inizio del XV secolo. Dopo la ristrutturazione di tutto il complesso,
operato proprio nel Quattrocento, e la realizzazione di un convento la
dedicazione cambia diventando Sant’Ilarione (monaco di origini orientali
vissuto a cavallo tra III e IV secolo).
Come per la
precedente puntata, per rendere più agevole la lettura di questa “relazione”,
ho diviso il lavoro in quattro capitoli, seguendo in maniera cronologica il
loro svolgimento: la chiesa di San Vito (fino al secolo XV), il convento di
Sant’Ilarione (secolo XV), il “Tramonto” (dal secolo XVI al secolo XVIII) la
villa Ollandini (secolo XIX).
E’
doveroso portare a conoscenza, pur se con alcuni limiti, notizie sulla “nostra
Foce”: buona lettura.
1
CAPITOLO – LA CHIESA DI SAN VITO
Introduzione storica
La descrizione del territorio presentata nella prefazione,
come già accennato, può essere riferita al XV secolo, ma potrebbe essere
attribuita anche all’epoca della “fondazione”, quindi almeno a quattro secoli
primi. Per avvalorare una tale affermazione dobbiamo prendere in “prestito”
alcuni pensieri già espressi nella descrizione della chiesa dei Santi Nazario e
Celso.
E’ opinione comune che fino all’inizio del XV secolo
la zona della Foce era “disabitata”, l’unica costruzione esistente era un
mulino citato in alcuni documenti del XII secolo. Dall’anno 9873i monaci
benedettini di Santo Stefano divennero proprietari di un territorio che dalle sponde del Bisagno spaziava al rivo Vernazza, e
dalla strada Romea fino al mare4(Cum
decimis et primiciis ad supradictam Ecclesiam pertinentibus, per fines et spacia
locorum a flusio Vesano usque rivo Vernazola et a via publica usque in mare),
quindi anche del “colle di san Vito”.
Pur essendo una “zona di campagna”, appare poco
attendibile la definizione del Vigna5che la considera una chiesa rurale: tale
definizione è da riferire all’istituzione tipica del Medioevo, finanziata o da
un vescovo o da un feudatario che serviva a diffondere il culto cristiano nelle
campagne ancora pagane. Quindi non è il caso di San Vito che giuridicamente si
ritrovava soggetta alla vicina chiesa di San Nazario: con ogni probabilità la
chiesa era concepita come “villeggiatura” 6.
La
fondazione
Per
analizzare al meglio le vicende storiche è fondamentale, per compiere un’accurata
ricerca, consultare le fonti antiche: per ciò che concerne il periodo della
“costruzione” i dati a nostra disposizione sono molto scarsi ed alcuni sono da
riferire a commenti postumi.
In
merito alla “fondazione” della chiesa (o cappella) di San Vito si possono
formulare solamente alcune ipotesi: nel precedente paragrafo ho accennato ad un
probabile periodo da fissare all’XI secolo, ma non esiste documentazione a
supporto di tale tesi.
Gli
“storici locali” dell’Ottocento affrontano l’argomento in modo vago: l’Alizieri7è forse il
più “sbrigativo” affermando che il
tempietto di quanta antichità non so dirvelo; il Remondini8, invece,
fissa ad un secolo ben preciso il periodo della fondazione: come luogo sacro a S. Vito abbiamo memorie
antichissime che ce lo mostrano anteriore al secolo X, tale spiegazione
appare molto evasiva è poco approfondita.
Comparando
i dati a disposizione con la precedente ricerca, abbiamo che il secolo XI è
l’epoca in cui le chiese di pertinenza dei monaci benedettini, come Santo
Stefano, San Siro e Santa Sabina, vennero restaurate: quindi fissare a
quest’epoca la fondazione di San Vito non è del tutto inesatto.
Le
vicende storiche di San Vito (secoli XI – XIV)
La
“notizia” più antica a nostra disposizione è dell’XI secolo (ottobre 10799) ed è riportata nel Cartario Genovese10del 1870, quindi uno “studio
moderno” eseguito dal Poch. Nella
trascrizione dell’atto è citata la chiesa di San Vito: in loco et fundo Albario prope Ecclesia Sancti Viti (vendita della
metà di un pastino11sito presso la chiesa).
Per
il XII secolo sono state reperite due date: 1146 e 1193. Nella
precedente “pubblicazione” 12, davo notizia che le “concessioni” fatte ai monaci
benedettini sulla chiesa di San Nazario, nel secolo X, furono confermate
successivamente dai vari pontefici, tutto ciò avvenne anche nel caso di San
Vito: l’Alizieri13ci
dice che nel 1146 con altre chiese da
notarsi più tardi, cedette in balia degli abati di S. Stefano; il Remondini14, espone in
maniera approfondita il suo pensiero riferendo che una chiesa o cappella vi esisteva nel 1146, e spettava ai Benedettini
di S. Stefano giusta la Bolla di Celestino III Monet nos del 14 febbraio 1193 all’abate Guidone15esistente nell’Archivio Arcivescovile.
Del
secolo XIII è stato consultato l’originale di un atto a rogito del notaio
Salomone16(redatto
in data 20 marzo 1224, per la nomina
del Rettore della chiesa dei Santi Nazario e Celso), nel quale è presente come
teste, il prete Anselmo della chiesa di San Vito di Albaro (presbiter Anselmi de Sancto Vitto de Albario).
I tre storici citati fin ora (Alizieri, Remondini e Vigna) segnalano sempre per
il secolo XIII, ma con il beneficio del dubbio, una lapide17datata 1293
della quale non sono certi fosse appartenuta alla chiesa suddetta.
Le notizie relative al secolo XIV, pur essendo
limitate e “sparpagliate”, possono essere considerate attendibili perché
estrapolate da documenti originali, analizziamole in successione. Per l’anno
1311 sappiamo che il rettore è un certo Prete Giovannino (o Giannino?), lo si
può leggere nel Syndicatus18(7 giugno 1311): presbyter Januinus minister Sancti Victi de Albario; il Remondini19ipotizza che
San Vito poteva essere succursale di San Nazario, ma risulta poco credibile.
Nel 1346 il rettore è un certo Prete
Bernardo, così come risulta dalle Compere
del Sale20:
Ecclesia Sancti Viti de Albario, Domino
Presbyter Bernardi. Nel 1360,
come citato dal Cambiaso21, le “tasse” spettanti alla chiesa di San Vito di Albaro erano
pari a 2 soldi e 6 denari. Nell’Illustrazione del Registro Arcivescovile22è presente,
per l’anno 1387, l’Atto di riparto della tassa straordinaria
imposta sulle chiese e gli altri luoghi pii dell’Arcivescovato di Genova:
per la chiesa in oggetto abbiamo un importo di denari 6; ancora una volta il Remondini23fornisce un suo personale giudizio su
tale notizia considerando l’edificio sacro ben
poca cosa e la tassa infima fra tutte
le chiese della città e sobborghi.
Il nome
Nei
documenti citati fin ora il nome della chiesa non risulta mai univoco: il più
delle volte lo troviamo scritto come San Vito, alcune volte come San Vitto e
più raramente come San Vio24(forse in gergo popolare). Lo storico Spotorno25, nelle
annotazioni agli Annali del Giustiniani, “corregge” il manoscritto del XVI
secolo dicendo leggi Vito.
La
decadenza
Sul finire del Trecento la “condizione
economica” 26della
chiesa, come già indicato, era ben poca cosa, mentre lo stato di conservazione
doveva essere molto scadente: il Remondini la considera distrutta: notizia tratta, molto probabilmente, da Jacopo D’Oria27il quale
nella sua pubblicazione del 1860 ci narra che sulle ruine dell’antico tempio di S. Vito fu edificata una chiesa
(vedi capitolo successivo). L’Alizieri la descrive come tempio distrutto o deserto che fosse.
Queste affermazioni fatte ci riportano
ancora una volta sulla strada già percorsa nell’itinerario della chiesa di San
Nazario: il periodo che va dal 1387 (anno della tassa straordinaria28di Urbano
VI) al 1435 (anno della nomina di un rettore tramite trascrizione con atto
notarile) è privo di “notizie”.
Il “buco temporale” evidenziato non può essere
spiegato, se non formulando delle ipotesi: non ci sono documenti o tanto meno
delle trascrizioni successive che possano farci intuire o comunque interpretare
in maniera più concreta il vero motivo di questa “mancanza”.
CAPITOLO 2 – IL CONVENTO DI SANT’ILARIONE
Premessa storica
Come accennato nel precedente capitolo, il secolo XV
si apre con la “chiesa in rovina”, benché non sono stati ritrovati dati
precisi.
Le “prove documentarie” a nostra disposizione sono
state reperite nelle “memorie” del più insigne cronista ecclesiastico del
Settecento genovese, Nicolò Perasso, e dallo “studio” del religioso (già
citato), Amedeo Vigna, della seconda metà dell’Ottocento, pur se contrastano in
alcuni punti.
Queste fonti ci raccontano in maniera dettagliata le
vicende storiche inerenti la “ricostruzione” avvenuta nel periodo che va dal
1436 al 147429:
nel progetto era anche previsto la realizzazione di un cimitero e l’installazione
delle campane. Secondo il Remondini, erroneamente, la conclusione dei lavori è
fissata al 1458 a seguito dell’intervento di un certo Padre Giovan Battista
Paggi (?).
Alcuni episodi raccontati nelle prossime pagine
potranno essere considerati, dal lettore più attento, “intrisi di tecnicismi”
giudicandoli superflui: la decisione di inserire questi dati è stata raggiunta
per fornire citazioni, estrapolate dai documenti dell’epoca, doverose per un
futuro studio più approfondito del presente.
Per maggiore comprensione di questi avvenimenti
(durati più di quarant’anni), è necessario prendere in esame i personaggi che
“occuparono la scena” del secolo: Andrea di Sant’Ambrogio (l’ideatore del
“progetto” e che possiamo considerare il primo periodo), Benedetto Carletti (il
periodo delle controversie) e Alessandro Raibaldi da Genova (il periodo della
definizione).
La figura di Andrea di Sant’Ambrogio (il primo
periodo)
Le condizioni di degrado riferite, furono risolte
(parzialmente) grazie all’interessamento di Andrea di Sant’Ambrogio da Genova:
ma chi era costui?
L’unico critico che ci narra, anche se brevemente,
della figura di questo religioso è il Vigna: buono, pio e intraprendente,
priore30del
monastero di San Matteo dal 1404 al 1437.
Il frate benedettino, intorno al 143131, ebbe
l’idea di “erigere” un nuovo monastero dell’Ordine: possedeva un ragionevole
patrimonio da investire, quindi presentò istanza al Pontefice dell’epoca
(Eugenio IV: 1431 - 1447) per ottenere la necessaria autorizzazione, che non si
fece attendere ed arrivò il 28 novembre
1431.
Dal “rescritto papale”32passò quasi un anno e il 17 novembre 143233un incaricato della curia
genovese, Marco De Franchi Burgaro, “diede esecuzione” al decreto dopo aver
verificato veritieri i termini della domanda del Padre Andrea, in modo
specifico la sezione riguardante l’aspetto economico: il tutto fu trascritto
dal notaio Biagio Foglietta34. Il luogo scelto per la fondazione di questo
convento fu proprio quello dove esisteva la chiesa di San Vito di proprietà
dell’abbazia di Santo Stefano.
Concordati in linea generale i termini generali del
progetto (convivenza di dodici monaci35, con l’assegnazione di cento fiorini annui e
monastero sotto il titolo di Sant’Ilarione che doveva essere perpetuamente unito, annesso et incorporato, al
monastero di San Matteo), c’era da risolvere il problema della proprietà:
passarono alcuni mesi di trattative finché il 17 agosto 1433 si decise di “negoziare una permuta” con la quale il
convento di Santo Stefano cedeva la proprietà della terra su cui era eretta la
chiesa di San Vito, in cambio di tre edifici posseduti da Andrea di
Sant’Ambrogio nei pressi della chiesa delle Vigne: tali proprietà gli
pervennero nel biennio 1421 - 1422.
L’atto giuridico definitivo fu redatto in data 11 settembre 143336e due giorni
dopo il priore Andrea ne prendeva “legale possesso”, anche si dovette risolvere
una piccola contesa legale37.
Come già riferito uno degli aspetti giuridici del
nuovo convento prevedeva la presenza di almeno dodici religiosi: non furono
“reclutati”. Fu richiesto, quindi, ad un religioso di un altro Ordine, fra
Benedetto Carletti (Agostiniano) di concorrere alla nuova fondazione: fu
domandata la necessaria autorizzazione pontificia che fu conseguita il 24 marzo 1435, anche se gli fu limitata
l’operatività in campo economico e nelle “cariche ecclesiastiche”.
L’impresa sembrò arenarsi definitivamente quando nei
primi mesi del 1437 il Padre Andrea morì lasciando i lavori appena iniziati: su
questa notizia i critici, fin ora consultati, non concordano riferendo ognuno
una “versione personale”. L’Alizieri è possibilista sul fatto che fosse anche
intervenuto un problema economico: ma le
sustanze o la vita non gli bastarono che a trarne le mura un dieci palmi dal
suolo38;
il Remondini commette un piccolo errore di trascrizione: ma colto l’Abbate da morte quando i muri si alzavano appena da terra un
dodici palmi come si rileva da epigrafe riportata dal detto D’Oria39. Forse il
più inequivocabile è il Perasso: ci riferisce che il decesso avvenne prima di
ultimare la detta fabbrica alla quale
altro non mancava che il tetto40.
La figura di Benedetto Carletti (il periodo delle
controversie)
Il “naturale successore” di Andrea di Sant’Ambrogio,
il Padre Carletti (designazione non condivisa dai frati di San Matteo ?),
diventerà il protagonista dei successivi quarant’anni.
Il primo atto formale del Padre Carletti fu quello di
richiedere la riduzione del numero dei monaci conviventi nel convento, la
“separazione giuridica” dal convento di San Matteo (separato dal sudetto di S. Matteo dipendente dal medemo, ma non già
unito, ne’ incorporato) e l’assegnazione del titolo di Priore (Priore perpetuo).
Il 13 maggio
143741il
Pontefice accolse il “ricorso” incaricando dell’attuazione del decreto tre
prevosti locali (il rettore della chiesa di San Giorgio, il rettore della
chiesa dei Santi Nazario e Celso42e il prevosto della chiesa dei Santi Cosma e
Damiano), i quali il 3 luglio 1437 (presa ufficiale di possesso del vecchio e del nuovo) trascrissero il verbale: “l’insediamento” richiedeva (anche
se non previsto dalle disposizioni emanate) un’autorizzazione della curia
locale, che fu deliberata l’11 luglio dello stesso anno dal vicario
arcivescovile.
L’operato del Prevosto della chiesa dei Santi Cosma e
Damiano (di nome Avendamo: il Vigna ci riferisce che commise il giudizio della sorta vertenza), non piacque al priore
del convento di San Matteo e alla famiglia D’Oria, i quali per tutelare i
propri profitti fecero appello al Pontefice: è doveroso ricordare che ci
troviamo nel periodo in cui la cristianità era alle prese con il famoso
“Concilio di Riunificazione” e quindi Eugenio IV, il 9 novembre 1437 delegò
dell’”indagine conoscitiva” sulla disputa insorta, l’Arcivescovo di Genova il
quale, ricevuta la “Bolla di Commissione”43per il Concilio di Ferrara, trasferì
l’incartamento al Canonico della Cattedrale con un atto del 6 febbraio 1438 rogato dal notaio
Foglietta44.
I due anni successivi furono condizionati nel
risolvere la controversia45sopra citata: la situazione fu risolta il 25 giugno 144046con una sentenza47nella quale il Carletti rinunciava ai redditi da
priore riservandosi soltanto settantacinque genovini annui con l’usufrutto
della terra annessa alla cappella.
Passarono incomprensibilmente dodici anni e nel 1452
(6 gennaio) fu richiesto un ulteriore “chiarimento sugli accordi del 1440”: per
l’esecuzione della nuova disposizione, emanata dal Pontefice Nicolo V il 19 luglio 145348, fu concluso un patto con
il priore di San Matteo e i “governatori dell’Albergo” 49della famiglia D’Oria.
L’anno successivo alla sentenza (1454), alcuni
“abitanti della zona” (rappresentati da quattro persone: Leonardo Giustiniani,
Antonio De Franchi, Pietro De Franchi e Gerolamo Castagnola) contestarono il
“comportamento” del Padre Carletti: fu “accusato” di non celebrare i Divini Offici e di non essere stato
capace ad introdurre i concordati sei monaci. In data 13 marzo 1455 fu redatto un atto relativo ad una probabile
“concessione” del monastero all’Ordine di San Gerolamo di Fesulis, e l’impegno
a terminare i lavori: tale notizia non è riportata dal Vigna. Il Padre Carletti
venuto a conoscenza di tale iniziativa fu particolarmente irritato, ma riuscì a
concordare un “aspetto giuridico” per il quale accettando la nuova condizione
sarebbe rimasto Priore.
Nei successivi venti anni i lavori rimasero fermi allo
stato di avanzamento del 1437: non fu terminata la riparazione50del monastero e della chiesa (come da obblighi della Bolla del
1440), il tutto dovuto ad una redditività diversa, come accennato
settantacinque genovini annui: lui stesso
impossibilitato a rialzarsi, che a stento provvedeva ai suoi personali bisogni51.
Nel frattempo alcuni laici che passavano il periodo
estivo nella zona della Foce Alta, richiesero al Carletti un’area nei pressi
della chiesa: con questo accordo si sarebbero reperiti i fondi necessari al
proseguimento dei lavori, e soprattutto si provvedeva al “cura delle anime”
chiedendo “l’intervento” di un ulteriore Ordine Religioso: l’atto fu trascritto
dal notaio Andrea De Cairo il 28 ottobre
147252.
Passati circa quarant’anni dalla morte di Andrea
Sant’Ambrogio, questo “secondo periodo” si chiude con la situazione immutata ed
un ulteriore “passaggio di consegne”: il giorno 8 giugno 147453il complesso
di San Vito d’Albaro fu offerto ai frati Carmelitani, nella persona del
Procuratore fra Giovanni da Prato, i quali pochi giorni dopo l’atto di possesso
rinunciarono, secondo il Giscardi54senza nemmeno che vi si potessero abitare.
La figura di Padre Alessandro Raibaldi (il periodo
della definizione)
La rinuncia dei frati Carmelitani “accostò” al
complesso religioso di Sant’Ilarione l’Ordine dei Domenicani (già presenti
nella vicina chiesetta di San Luca), i quali rimasero proprietari fino
all’inizio del XIX55secolo.
Questo ultimo quarto del XV secolo può essere
sintetizzato in quattro punti significativi: conclusione dei lavori di
ricostruzione, fermi da oltre quarant’anni, benché nel 1510 si riscontra la
notizia (tratta da una ricevuta di pagamento per un certo Simone architetto) di
ulteriori lavori; ottenimento del parere favorevole da parte dei priori di San
Matteo e di Sant’Ilarione; confermare priore il Padre Carletti, fino alla sua
morte, avvenuta nel 1476; successivamente il “priorato” sarebbe passato
all’Ordine dei Domenicani56(descritti come Ordine dei Predicatori), nella persona del
Padre Alessandro Raibaldi da Genova (uomo
riputatissimo per sapienza di consiglio e per santità di costumi57): sarebbero
stati obbligati a donare, nella Domenica delle Palme, al Priore di San Matteo e
alla famiglia D’Oria, due “ceri rossi” d’una libra l’uno e celebrare una messa
in suffragio della famiglia D’Oria.
L’ufficialità dell’evento fu formalizzata il 26 luglio 147558quando il Pontefice Sisto IV
concesse il possesso del complesso che fu nuovamente intitolato a San Vito.
Il Padre Raibaldi morì nel 1502 e il possesso
passò ai Domenicani Osservanti.
CAPITOLO 3 – IL TRAMONTO
Le ristrutturazioni
I nuovi proprietari (i frati Domenicani) completarono il
restauro del complesso monastico rendendolo decoroso; da alcune descrizioni
ottocentesche apprendiamo le dimensioni della chiesa che era ad una sola
navata, e misurava circa nove metri di larghezza, circa venti metri di
lunghezza, la dimensione del presbiterio era di dieci metri. Erano presenti tre
altari, i due minori in legno, uno dei quali dedicato al Santo Rosario, nel
quale era presente una statua in legno della Madonna59. L’altare maggiore era di calce: nel
1585 furono costruite, grazie a Benedetto Giordani, delle balaustre in marmo
mentre il pavimento fu eseguito in mattoni.
Come tutte le chiese di Genova anche San Vito
ricevette, nel 1582, l’ispezione60del Visitatore Apostolico della Curia (monsignor
Francesco Bossio, Vescovo di Novara): furono emanati dei decreti che imponevano
di “risolvere” alcune situazioni ritenute non a norma tra cui il tabernacolo, i
tre altari, le panche, il confessionale e la sacrestia.
Nel 1643 i frati del convento di Santa Maria di
Castello inviarono un tecnico (un converso
perito in quell’arte) per constatare l’entità dei presunti danni: ma con scarsi mezzi a poco aveva provvisto61.
Passato quasi un secolo dalla già citata “ispezione”
sappiamo che a seguito del bombardamento di Luigi XIV, nel 1684, la chiesa era
in condizioni cadenti e necessitava di un urgente restaurato. Tale situazione
fu parzialmente risolta, nel 1690, dal priore del convento di Santa Maria di
Castello, Vincenzo Acquarone, anche se il “capitale” messo a disposizione era
di lieve entità. Alla ristrutturazione concorse, così, anche l’Arcivescovo di
Genova Vincenzo Gentile, il quale essendo stato frate a Santa Maria di
Castello, conosceva il sito di San Vito nel quale amava ritirarsi a quando a quando colà in solitudine per ritemprarvi lo
spirito affaticato dalle cure del suo ministero62.
Nel 1661 la famiglia D’Oria espresse il desiderio che
fosse ricordato, dalle generazioni future, tramite un’epigrafe, il passaggio di
proprietà ai domenicani; la scritta era la seguente: GRATUM ANIMUM NULLA
OCCUPAT PRAESCIPTIO. ECCE ADHUC POST DUA SAECULA HUIUS LOCI AB ILL.MA FAMILIA
DE AURIA RECOGNOSCIT CESSIONEM DOMINICA RELIGIO UT QUAE PERENNANTUM INSTRUAT
MEMORIAE HOC LAPIDE GAUDE63 FIRMARI AB EIUSDEM
GUBERNATORIBUS DD. BAPTA QUONDAM JO. LUCAE IGNATIO ET FRANCISCO M. A. D. BRANCALEONIS ANNO DOMINI MDCLXI.
Nel 1754 fu deciso di impegnare il “ricavato della
rendita” in un ulteriore restauro: il 10 marzo 1770 fu richiesta una
“consulenza” circa la possibilità di erogare cento cinquanta scudi romani per i
lavori; un’ulteriore somma fu investita, nel 1778, per la completa
ristrutturazione del convento.
Le vicende storiche
Le uniche “informazioni” disponibili riguardano il
secolo sedicesimo.
La chiesa fu utilizzata nei tempi della villeggiatura
estiva: per il 1606 si ha notizia della celebrazione di due messe al giorno.
Nel periodo della pestilenza del 1528 o 153264, fu inviato
un nutrito numero di frati in San Vito: molti morirono.
Nel 1579 il Priore di Santa Maria di Castello (dal
quale la chiesetta era dipendente) inviò, per la cura delle anime, quattro
frati. Un’ulteriore notizia reperita è del 1530 per un contenzioso su un danno
arrecato al muro di cinta da parte di un certo Pier Antonio di Albaro.
L’elezione
del Vicario, fin dagli inizi veniva fatta dal priore di Santa Maria di
Castello, nel 1592 divenne un diritto esercitato dal “consiglio degli anziani”, da quell’anno abbiamo un elenco
(inserito in appendice), il quale non va oltre al 1651.
CAPITOLO 4 – VILLA OLLANDINI
La chiesa agli inizi dell’Ottocento
Sul finire del secolo XVIII l’intera Europa è
“vittima” della Rivoluzione Francese e delle idee derivanti dall’Illuminismo: questo
episodio fu l’ultima illusione di libertà per molti governanti italiani.
Nel 1796, a seguito della discesa di Napoleone in
Italia, la Repubblica di Genova passò sotto la giurisdizione francese e
successivamente, nel 1805, ne diventò provincia: iniziarono da questo momento
ritorsioni contro gli Ordini Religiosi che si conclusero con la legge di
soppressione.
Tale situazione portò alla confisca dei beni avvenuta
con Decreto del Direttorio Esecutivo il 6 aprile 1798: anche la chiesa di San
Vito rientrò in questa narrazione, anche se sappiamo (vedi nota 55) che nel
1808 i proprietari sono ancora i frati Domenicani.
La trasformazione in abitazione
Nella seconda metà del secolo il Vigna ebbe la
possibilità di vedere l’edificio sacro (1855): ci riferisce che era stato
destinato a magazzino di legname. Anche il Remondini si recò, nel 1862, nella
chiesa vuota descrivendola con buona precisione.
L’antica struttura fu mantenuta fino al 1879: a quei
tempi la proprietà passò ad un personaggio illustre Raffaele Rubattino
(presente nella Spedizione dei Mille) che la trasformò, insieme alla moglie
Bianca Rebizzo, in un elegante abitazione secondo il “gusto neogotico” (a guisa di castello con a lato una svelta
torre65).
Dall’Alizieri apprendiamo che all’interno furono mantenuti alcuni affreschi
eseguiti da Lazzaro Tavarone (1556 – 1641): un’immagine di Sansone tradito da
Dalila; nel salotto erano presenti altre figure bibliche. Anche all’esterno
furono mantenute alcune caratteristiche dell’antico cenobio tra cui le strisce
bianche e nere e due antichi bassorilievi in pietra di promontorio: e vel dichiari un portale ch’ei godette di
porsi all’ingresso; preziosa pietra di Promontorio e leggiadro intaglio del
cinquecento; vedreste tuttora le
arcate leggermente acute, o i cordoni, e le imposte, e le mensole, e fin le
patere66scolpite ad immagine sacre, che mostrano
qual’ella venisse riedificata nell’epoca che sopra ho scritto.67
A seguito della morte di Rubattino (1 novembre 1881)
la proprietà passò alla famiglia Hofer e successivamente ai marchesi Ollandini.
Nella notte tra il 22 e il 23 ottobre 1942 il
bombardamento alleato distrusse l’abitazione rendendola inutilizzabile: uno
spezzone incendiario aveva colpito il tetto dell’edificio, generando un crollo
a catena che aveva distrutto i piani sottostanti.
L’edificio attuale
La “ricostruzione” fu caratterizzata da un complesso
iter burocratico dal quale veniva concesso un’aerea minore rispetto a quella
originale pur mantenendo inalterato il volume preesistente.
La scelta del progettista ricadde su una persona molto
affermata dell’architettura genovese: Robaldo Morozzo della Rocca.
Il progetto prevedeva di ricreare lo sfaldamento creato dall’ordigno bellico ed una grande superficie
vetrata curvilinea sul lato a mare mantiene la forma sinuosa che potevamo
riconoscere nel rudere68.
La nuova
costruzione, visibile anche ai nostri giorni, ebbe termine nel 1956.
APPENDICE (Elenco dei Vicari di San Vito – secolo
XVII)
1592 Padre
Domenico Ceva di Genova
1594 Padre
Ludovico Adorno di Genova
1598 Padre
Pier Martire Dondo di Voltri
1600 Padre
Filippo Malvasia di Genova
1607 Padre
Antonio di Capriata
1610 Padre
Reginaldo Zignago
1610 Padre
Gio Ambrogio Di Negro
1612 Padre
Filippo Malvasia
1614 Padre
Gio Crisostomo di Diano
1618 Padre
Agostino Alessi di Genova
1619 Padre
Reginaldo Zignago
1621 Padre
Serafino Pasqua di Genova
1627 Padre
Deodato Centurione di Genova
1629 Padre
Gio Domenico Ghilini di Genova
1630 Padre
Gio Batta
1631 Padre
Deodato Centurione di Genova
1638 Padre
Filippo Goano di Torriglia
1640 Padre
Paolo Vincenzo Centurione
1643 Padre
Gio Ambrogio Ghilini
1644 Padre
Gio Batta Salvago di Genova
1646 Padre
Deodato Centurione di Genova
1646 Padre
Angelo Tasso di Genova
1648 Padre
Filippo Goano di Torriglia
1649 Padre Deodato Centurione
di Genova
NOTE
CAPITOLO
1
1 RAIMONDO
AMEDEO VIGNA, Le chiese rurali di San Luca,
San Vito e di Santa Chiara in Albaro in Atti Società Ligure di Storia Patria,
Vol. XX, p. 467, Genova 1888 – 1896.
2 Idem,
p. 468.
3 NICOLO’ PERASSO,
Memorie e notizie di chiese e
opere pie di Genova, manoscritto, c. 246 – 249 (A.S.G., Manoscritti secolo
XVIII, numero 844).
FEDERICO ALIZIERI, “Guida
Artistica per la cittá di Genova”, Genova 1875, p. 583.
ANGELO E MARCELLO
REMONDINI, Le Parrocchie
dell’Archidiocesi di Genova, Genova 1893, p. 3.
Anche gli “esperti”
dell’Ufficio Storico delle Belle Arti del Comune di Genova citano la data del
maggio 987.
4 F. ALIZIERI, Guida artistica, p. 582.
CF. LUIGI TOMMASO
BELGRANO, Atti Società Ligure di Storia
Patria: «Cum decimis et primiciis ad supradictam Ecclesiam pertinentibus, per
fines et spacia locorum a flusio Vesano usque rivo Vernazola et a via publica
usque in mare».
CF. Manoscritto Biblioteca Universitaria, N° 255, Miscellaneo di scritture ecclesiastiche: «Domenicalij, quae ipsi qui abitavi, et habitaverint in Civitate Januae
et in Burgo, et in Castro, in praesentibus quod in futuris temporibus a flumine
Besagni usque flumen Sturlae».
5 R. A.
VIGNA, Le Chiese Rurali, p. 466.
6 Di
questo avviso è il Perasso, nel Settecento, il quale ci narra che serve di luogo di ricreazione nell’estate.
Il Remondini, invece, ha un’idea diversa: I PP. Domenicani l’ebbero sempre sino alle
rivolture del secolo scorso come un luogo di ritiro per l’autunnale stagione.
7 F. ALIZIERI, Guida artistica, p. 577.
8 ANGELO
REMONDINI, Le Parrocchie suburbane di
Genova, Genova 1882, p. 31.
9 Consultando
lo studio di Paolo Novella (Chiesa di San
Vito in La Settimana Religiosa 1931, p. 488), la data citata è il 1019:
probabilmente un errore di stampa.
10 Cartario
Genovese, in Atti della Società Ligure
di Storia Patria, Vol.
II – parte Iª, Genova 1870, p. 182.
11 Per pastino si intende la coltivazione di
una vigna in un terreno ben dissodato.
12 DANIELE
CAGNIN, La Chiesa dei SS. Nazario e Celso,
febbraio 2015, (http/anticafoce.blogspot.it).
13 F. ALIZIERI, Guida artistica, p. 577.
14 A.
REMONDINI, Le Parrocchie suburbane,
p. 31.
15 E’
presente anche in alcuni documenti delle pergamene del “monastero di Santo
Stefano” presenti all’Archivio di Stato di Genova.
16 A.S.G., Notari
Antichi – Magister Salomonis, Cartolare – n° generale d’ordine 14, c. 175, atto 872.
17 HOC OPUS FECIT FIERI DOMINA CLARIXIA DE
GRIMALDIS UXOR DOMINI MANUELIS JACHARIE AD HONOREM DEI ET BEATI JOHANNIS
BAPTISTE ET MARIE MAGDALENE MCCLXXXXIII.
18 Il Syndicatus è una procura che il clero
dell’Arcidiocesi Genovese, fece nei confronti del Prete Rollando Della Pietra,
Cappellano della Metropolitana, com’è attestato negli atti del Notaio Leonardo
De Garibaldo in data 7 giugno 1311. CF. Giornale
Ligustico, p. 6, Genova 1879.
19 A.
REMONDINI, Le Parrocchie suburbane,
p. 31.
20 COMPERE DEL SALE, ANNO 1346 - colonna C (A.S.G., COMPERE MUTUI, n° generale d’ordine 7/7).
21 DOMENICO CAMBIASO, “L’Anno
Ecclesiastico e le Feste dei Santi in Genova, nel loro svolgimento storico”,
Genova 1917.
22 LUIGI TOMMASO BELGRANO, Illustrazione del Registro Arcivescovile in Atti Società Ligure di
Storia Patria, VOL. II, p. 363, Genova 1870.
23 A.
REMONDINI, Le Parrocchie suburbane,
p. 32.
24 GIACOMO
GISCARDI, Origine delle Chiese e
Monasteri, e luoghi pii della Città, e Riviere di Genova, ms. secolo XVIII,
c. 297 (B.B.G., mr II 4.9).
25 AGOSTINO
GIUSTINIANI, Annali della Repubblica Genovese, ms. 1537 riveduto dallo
Spotorno nel 1846, p. 83 (B.B.G., F.V. Gen B 308/309).
26 Bisogna
ricordare che la proprietà del terreno circostante la chiesa era di pertinenza
dell’abbazia di Santo Stefano la cui rendita non oltrepassava i sette genovini.
27 JACOPO
D’ORIA, La Chiesa di San Matteo in Genova,
Genova 1860, p. 101.
28 L.
T. BELGRANO, Illustrazione del Registro
Arcivescovile, p. 363.
CAPITOLO
2
29 R. A. VIGNA, Le
Chiese Rurali, p. 485. A. REMONDINI, Le
Parrocchie suburbane, p. 32.
30 J.
D’ORIA, La Chiesa di San Matteo, p.
82.
31 Dal manoscritto Chiese
di Genova (A.S.C.G., Manoscritti N°
50, c. 823), apprendiamo una data diversa, 1410.
32 Nel corso dei secoli il lavoro della Cancelleria
Apostolica aumentò la sua mole di lavoro: la gente usava rivolgersi al
Pontefice per la revisione di una sentenza ingiusta o che considerava ingiusta.
La
numerosa quantità di “incartamenti” veniva vagliata dagli scriptores domini pape, i quali dovevano redigere i documenti in
latino secondo il complesso codice di formule in uso nella Cancelleria chiamato
stilus curiae. Prima di essere
spedito il “fascicolo” passava attraverso numerose fasi di revisione:
innanzitutto bisognava scrivere la minuta con il contenuto essenziale del
documento, poi si effettuava una prima verifica per eliminare sviste
involontarie ed errori di concetto, successivamente si trascriveva in bella
copia con una scrittura accurata, la quale veniva nuovamente riletta. L’ultima
“operazione” era quella della sigillatura effettuata dai bullatores. (CF. BARBARA FRALE, L’inganno
del gran rifiuto, Roma 2013, pp. 67 – 69).
33 Dal Perasso (Memorie e notizie di chiese e opere pie di Genova, manoscritto secolo XVIII, c. 493 recto -
A.S.G.S.S., Manoscritti, numero 844) apprendiamo una
diversa data: 26 agosto 1432, atto rogato dal Noatio Gregorio Ponte, detto atto
non è stato ritrovato nella filza relativa del notaio in questione.
Nella pubblicazione del Remondini è citato il 1423:
sicuramente è un errore di stampa, ma ugualmente ripreso dal Novella.
34 A.S.G., Notari Antichi – Biaggio Foglietta, filza
2 – n° generale d’ordine 565: l’atto fu rogato il giorno 21 novembre 1432, ed è
contrassegnato dal numero 362 (366 vecchia numerazione).
35 N. PERASSO, Memorie e
notizie, c. 493 recto: nigri coloris habitum deferentes.
36 A.S.G., Notari Antichi – Gregorio De Ponte, Atto
n° 126 (n° 103 vecchia numerazione), filza 9 – n° generale d’ordine 789.
37 Fin
dal 1420, la terra circostante la chiesa di San Vito era stata locata a
Battista Delfino dei Signori da Passano. Quando morì il contratto fu ereditato
dalla moglie Isabella Maruffo, la quale non potendo coltivare il podere, e non
potendo affrontare la spesa legale per dirimere la controversia intervenuta con
il priore Andrea, accettò di buon grado l’offerta di un luogo nelle Compere di
San Giorgio, per tutta la sua vita e per quella della figlia: il tutto avvenne
il 19 gennaio 1434.
38 F.
ALIZIERI, Guida artistica, p. 577.
39 A. REMONDINI, Le Parrocchie suburbane, p. 32: detta notizia è tratta direttamente
dallo scritto di Jacopo D’Oria.
40 N.
PERASSO, Memorie e notizie, c. 493
verso.
41 Idem; R.
A. VIGNA, Le Chiese Rurali, p. 485: Col
precedente decreto pareva dovesse riposare tranquillo nella sua sede il novello
priore, e dare opera sollecita alla costruzione della chiesa e del cenobio.
42 Prete
Giacomo Aschero (CF. D. CAGNIN, La Chiesa dei SS. Nazario e Celso).
43 Era la Bolla emanata dai
Pontefici in cui era contenuto il “giuramento di fedeltà”.
44 Nella filza relativa al
notaio in questione (A.S.G., filza 3 – n°
generale d’ordine 566), l’atto non è stato ritrovato: la filza è molto
disordinata e in via di studio.
45 Il giudizio del Vigna in
merito a questa controversia è il seguente: «Le ragioni addotte dagli avversarii suoi
dovevano essere di non leggiero valore, se il Carletti stesso innanzi che il giudice
delegato a sentenziare proferisse il lodo, venne ad un’amichevole transazione
colla parte contraria, e il 25 giugno 1440 firmò l’instrumento, a mezzo del
quale rinunziò a tutti i redditi del priorato, presenti e futuri».
Dal Perasso apprendiamo quanto segue: «Agitatasi per tanto con pari fervore fra
dette parti sudetta controversia, e la medema diventata più spinosa di quello
non si supponevano».
46 Dal
manoscritto del Perasso possiamo ricavare alcune date, precedenti a questa
citata (tra cui anche quella del 6 febbraio 1438; vedi nota 44), che il Vigna
non menziona, forse perché non conosceva le Memorie del cronista settecentesco,
in quanto il materiale archivistico non era presente a Genova. Riporto
fedelmente la cronaca:
…
trattorlo d’ultimarla con qualche amichevole Composizione [componimento che prevede l’appianamento di una lite o
vertenza] qual volendo che fosse stabile
e permanente, supplicarono perciò giustamente il suddetto Pontefice Eugenio
quarto voler compiacersi d’avocare [assumersi] a se’ la caosa stessa e delegare detto Prevosto de Santi Cosma e
Damiano per la licenza da darsi e di fare detto Convegno [riunione], et avendo esso Pontefice aderito
all’Istanza con sua Bolla de tredici
maggio dell’anno mille quattrocento trentanove ordinò al mentonato Prevosto
che concedesse la dimandata licenza di far auctoritate
Apostolica.
47 Vedi nota
44.
48 A.S.G.,
Notari Antichi – Andrea De Cairo,
Atto n° 249, filza 9 – n° generale d’ordine 789: Approbatio et Confirmatio Comprositionis et Validatio collationis.
Nell’atto contrassegnato con il numero 157 e
datato 23 luglio, il padre Carletti è presente come teste. Per maggiori
informazioni su questo atto confrontare le seguenti fonti: N. PERASSO, Memorie e notizie, c. 503 verso; R. A. VIGNA, Le Chiese Rurali, p. 502.
49 ALBERGO:
è il nome usato nel periodo medievale per indicare una sorte di consorzio di
famiglie nobili, legate da vincoli di sangue o da comuni interessi economici,
spesso abitanti in palazzi vicini.
50 R. A. VIGNA, Le Chiese Rurali, p. 504: «aveva la fabrica di una modesta casa a uso proprio, ma la chiesa nuova
abbandonò al punto in cui trovossi, cioè senza tetto, ed esso funzionava
nell’altra cappella rurale […] nel
frattempo parte cadenti, parte demoliti del tutto».
51 Idem.
52 A.S.G.,
Notari Antichi – Andrea De Cairo,
Atto n° 180, filza 9 – n° generale d’ordine 807.
Per maggiori informazioni su questo atto confrontare
le seguenti fonti: N. PERASSO, Memorie e notizie, c. 511 verso; R. A.
VIGNA, Le Chiese Rurali, p. 505.
53 A.S.G., Notari Antichi – Andrea De Cairo, Atto
n° 316, filza 9 – n° generale d’ordine 809: «fabbricarsi detta Loggia con sua piazza».
Per maggiori informazioni su questo atto confrontare
le seguenti fonti: N. PERASSO, Memorie e notizie, c. 515 verso.
54 GIACOMO
GISCARDI, Origine delle Chiese Monasteri,
e Luoghi Pii della città e Riviere di Genova, ms. del secolo XVIII (B.B.G.,
mr II 4.9), c. 297.
55 Carta Topografica dei beni dal Bisagno della
Foce a Santa Tecla (1776 – 1808) – A.S.G., n° E.01.002.1238.
56 Il
Vigna dice che erano i frati di Santa Maria di Castello (notizia presente anche
nel già citato manoscritto Chiese di
Genova), Il Paganetti (che ebbe modo di vederli di persona) di San
Domenico.
57 F.
ALIZIERI, Guida Artistica, p. 577.
58 Molti
critici confondono la data di “ingresso” del Padre Raibaldi nella chiesa di San
Vito (1475; cf. Atti Società Ligure di
Storia Patria, Volume IV, p. 120), con la data della morte.
Il primo a non riportare la sequenza degli eventi è,
agli inizi del Settecento, BARTOLOMEO MONTALDO (Sacra ligustici coeli sidera sanctitate, pontificia dignitate,
religionumque praefctura generali clasriola, chronologica, manoscritto del
1732, c. 112); la stessa imprecisione la troviamo nei SAGGI CRONOLOGICI del
1743, nel manoscritto del Giscardi ed è ulteriormente riferita da GOFFREDO
CASALIS (Dizionario geografico statistico
commerciale degli stati di S. M. il Re di Sardegna, VOL. 7, Torino 1840).
CAPITOLO
3
59 La
statua, nella seconda metà del secolo XIX, fu trasferita nella chiesa dei SS.
Pietro e Bernardo (CF. VIGNA, Le Chiese Rurali, p. 576).
60 FRANCESCO
BOSSIO, Liber Visitationum, ms. 1582,
c. 233 (A.S.G., Manoscritti, N° 547).
61 VIGNA,
Le
Chiese Rurali, p. 539.
62 Questa
notizia è possibile leggerla anche in Atti
Società Ligure di Storia Patria, Volume IV, p. 120: «Quello di San Vito ebbe a patire gravi danni nel troppo noto
bombardamento del 1684; ma l’Arcivescovo Giulio Vincenzo Gentile, che assai
compiacevasi di quel ridente soggiorno, volle poco stante che fosse ristaurato
a sue spese».
Dal Remondini riscontriamo, invece, il solito errore
di data «Monsignor Giulio Vincenzo,
Arcivescovo di Genova, nel 1681, il quale a sue spese ne fece ristorare a sue
spese ne fece ristorare i danni, che ebbe a partire nel 1684 dal bombardamento
avuto da Luigi XIV».
63 Il
Remondini riporta l’errore che era presente nella lapide, aggiungendo, però,
che la trascrizione esatta doveva essere GAUDET.
64 Una curiosità: durante la peste
del 1532, il Senato della
Repubblica, con a capo il “Serenissimo” Battista Spinola (figlio di Tommaso),
si recò nella chiesa di Nostra Signora dei Servi ad implorare l’aiuto di Maria
Addolorata per la cessazione del tremendo flagello davanti alla tavola di
Barnaba da Modena, visibile ancora ai giorni nostri nell’attuale chiesa dei
Servi (CF. DANIELE CAGNIN, Guida Storica
Artistica Santa Maria dei Servi, Genova 2002, p. 16).
CAPITOLO 4
65 PAOLO
NOVELLA, Chiesa di San Vito in La Settimana Religiosa 1931, p. 488.
66 In
epoca antica era una coppa per le libagioni, rotonda e piatta, che serviva
anche per i sacrifici agli dei. Diventò motivo di decorazione assai frequente
nell’architettura del primo Rinascimento.
67 F.
ALIZIERI, Guida Artistica, p. 578.
68 LORENZO
BAGNARA, Villa Ollandini. Un’architettura
organica nella Genova degli anni ’50, Rivista la Casana, Genova 2012.
BIBLIOGRAFIA
ACCINELLI
FRANCESCO MARIA, “Liguria Sacra”, manoscritto
1750 ca.
ALIZIERI
FEDERICO, “Guida Artistica per la cittá di Genova”, Genova 1846 e 1875.
CAMBIASO DOMENICO, “L’Anno
Ecclesiastico e le Feste dei Santi in Genova, nel loro svolgimento storico”,
Genova 1917.
Cartario Genovese, in Atti della Società Ligure di Storia Patria, Vol. II – parte Iª, Genova 1870. (anche in
formato digitalizzato)
CASALIS
GOFFREDO, “Dizionario Geografico
Statistico Commerciale degli Stati di S. M. il Re di Sardegna”, (anche in
formato digitalizzato)
Chiese di Genova, manoscritto secolo XVIII.
DE
SIMONI LAZZARO, “Le Chiese di Genova”, Genova 1948.
DORIA
JACOPO, “La Chiesa di San Matteo in Genova”,
Genova 1860. (in formato digitalizzato)
GISCARDI GIACOMO, “Origine
delle Chiese, Monasteri e luoghi pii della città e riviere di Genova”,
manoscritto secolo XVIII. (in formato digitalizzato)
GIUSTINIANI
AGOSTINO, “Annali della Repubblica Genova”, Genova 1537 (riedizione del
1846).
Illustrazione
del Registro Arcivescovile, in Atti della Società Ligure di Storia Patria, Vol. II – parte IIª, Genova 1870.
MONTALDO
BARTOLOMEO, “Sacra Ligustici Coeli Sidera”,
manoscritto 1732.
NOVELLA
PAOLO, “Settimana Religiosa”, Anni: 1931.
ODICINI
GIOVANNI, L’Abbazia di Santo Stefano,
Genova 1974.
PAGANETTI
PIETRO, “Storia ecclesiastica della
Liguria”, Roma 1766.
PERASSO
NICOLO’, “Memorie e notizie di chiese ed opere pie di Genova”, manoscritto 1770 ca.
RATTI
CARLO GIUSEPPE, “Istruzione di quanto può
vedersi di più bello in Genova”, Genova 1780.
REMONDINI
ANGELO, “Parrocchie Suburbane di Genova”,
Genova 1882.
SCHIAFFINO
AGOSTINO, “Conventi, monasteri chiese e ordini religiosi”, manoscritto
del secolo XVIII.
Syndicatus Ecclesiae Januensis MCCCXI in Giornale Ligustico, Genova 1879.
VIGNA
RAIMONDO AMEDEO, “Le Chiese rurali di San
Luca, San Vito e di Santa Chiara in
Atti della Società Ligure di Storia Patria, Vol. XX, Genova
1888 – 1896.
Be, però qualche foto della vecchia chiesa di S. Vito potevate anche metterla...
RispondiEliminaNon può esistere la documentazione fotografica relativa a questo edificio
RispondiEliminaEsiste una fotografia della seconda metà dell'Ottocento, relativa alla conclusione della costruzione del caseggiato di Via Cecchi (civico 2), nella quale si intravede in lontananza il profilo di un'edificio simile ad una chiesa: in quest'epoca San Vito era stata trasformata in villa.
RispondiElimina