martedì 17 novembre 2020

UNA DIVINITA' ALLA FOCE

 


Daniele Cagnin e Edoardo Maragliano

 


      Passeggiando per le strade del “nostro quartiere” e più precisamente nella zona detta Foce a mare, in quella porzione di territorio che un tempo componeva il Borgo della Foce, possiamo osservare diversi stili architettonici dei palazzi che costeggiano le vie: in particolare, alla confluenza tra via Casaregis e corso Italia, trova ubicazione un edificio di civile abitazione, in stile Liberty, che ha attratto la nostra curiosità ma anche quella di numerose persone che abitano questa angolo cittadino.

Il caseggiato in oggetto, contraddistinto con il numero civico 1 di via Casaregis, ha una particolarità che dall’epoca della sua costruzione (1) fa discutere gli abitanti della Foce su chi veramente rappresenti la statua alata posta sulla sommità del palazzo.

     Molti di coloro che si soffermano ad osservare la scultura ne danno un personale giudizio, da cui è scaturito il “nome popolare” attribuito all’edificio e cioè palazzo dell’angelo.

Coloro che conoscono l’epoca di costruzione dell’edificio (l’epoca del Ventennio), pensano a congetture fornendo una particolare opinione circa un’ingerenza fascista in questioni religiose: «guarda un angelo che fa il saluto romano». Rispetto alla “situazione originale” il manufatto è stato “modificato”, eliminando alcuni elementi decorativi, considerati “scomodi”: fasci littori e gli allori «simboli della forza e della grandezza», come ci riferisce lo stesso progettista all’interno dell’articolo Caseggiato della Vittoria apparso nella rivista Architettura Italiana (anno XXI, fascicolo 1, 1926, pp. 4 – 8). Occorre però subito rilevare che i giudizi popolari non corrispondono al soggetto che lo scultore voleva rappresentare e cioè alla personificazione della Vittoria Alata, quindi la divinità greca Nike.

Perché è importante correggere questa falsa credenza? La risposta sembrerebbe banale ma l’intenzione del Gruppo Antica Foce ha lo scopo di divulgare la “storia vera” del nostro quartiere, dissipare le “nebbie del sapere”, ma soprattutto per renderci consapevoli su come si è “evoluta” e come sia importante conoscere la nostra identità culturale, della quale noi oggi siamo gli eredi.

Per quanto riguarda il culto di Nike, come dea della vittoria, esso si diffuse dopo le “guerre persiane”, ma non le fu tributato un culto individuale fino all’Ellenismo, cioè fino all’epoca della morte di Alessandro Magno e della successiva nascita dei regni ellenistici. In questo contesto si colloca la celebre Nike di Samotracia rinvenuta nel 1863 nell’isola di Samotracia, ed oggi posta nel Museo del Louvre. L’iconografia della Nike posta sul palazzo, riprende proprio quella dell’isola greca citata, nella quale la dea è poggiata con la gamba destra sulla prua d’una nave, e con quella sinistra più arretrata, nell’atto di prendere il volo con le ali spiegate.

Ma cosa sappiamo di questa figura mitologica?

Consultando i lemmi di varie enciclopedie il risultato ottenuto è il seguente: secondo la scrittore Esiodo è la figlia del titano Pallante e della oceanina Stige, con tre fratelli Cratos (la forza), Bia (la violenza), Zelos (la gelosia), appartiene perciò alla prima stirpe divina, ed è anteriore agli Olimpici. Altre tradizioni ne fanno una compagna di giochi di Atena: sarebbe stata allevata da Pallante (l’eroe eponimo del Palatino), il quale le avrebbe consacrato un tempio in cima alla sua collina, il Palatino (era il tempio che, in epoca storica, si erigeva a lato del Clivus Victoriae). Altri, infine, considerano Nike come un epiteto della dea Atena.

Per terminare è doveroso soffermarsi sulla personificazione della Vittoria presente nel nostro inno nazionale: Goffredo Mameli immagina che «la Vittoria porga la sua chioma all’Italia in segno di sottomissione in quanto è stata schiava di Roma».

Un’ultima curiosità: la Vittoria Alata è il soggetto riprodotto in un francobollo celebrativo del Regno d’Italia del 1921 “dedicato” al decennale della vittoria in Libia.



Palazzo della Vittoria (1925)

NOTA

(1) 1922 – 1923: progettato dall’Architetto Venceslao Borzani – Ferrara 10 ottobre 1873 / Genova 30 novembre 1926.

BIBLIOGRAFIA

Architettura Italiana, anno XXI, 1926 (Periodici Italiani Digitalizzati);

Il modernismo ligure firmato Borzani in il Giornale.it (articolo del 24/11/2006);

L’Universale – La Grande Eciclopedia Tematica: Enciclopedia della Mitologia, 2003, p.446;

Religioni e Miti – Dizionario Enciclopedico, 1984, Vol. 2, p. 450;


mercoledì 9 settembre 2020

I PALAZZI PIU’ ANTICHI DELLA FOCE


Di DANIELE CAGNIN
Settembre 2020
Prefazione (a cura di Edoardo Maragliano)
L’assetto urbanistico attuale della Foce è il risultato d’un “rimaneggiamento” durato circa cent’anni: infatti mentre da una parte si demolirono le case dei pescatori del Borgo, le case dei besagnini e tutti gli edifici del Lazzaretto, dall’altra si edificavano i palazzi dei nuovi piani regolatori.
E’ ovvio quindi rivelare che i più antichi palazzi della Foce siano stati proprio quelli dei primi Piani Regolatori del periodo 1873 – 1877.
Di particolare interesse, per approfondire più in generale l’argomento delle trasformazioni urbanistiche della Foce, è il volume pubblicato da Daniele Cagnin e Severino Fossati, nel 2019, A Forma Foxe, a cui si rimanda per ogni ed eventuale chiarimento in merito.
Premessa
Dell’antico Borgo della Foce non sono rimaste che pochissime “tracce del passato” a cui non si dà peso perché sono “immagini” che abbiamo sempre sott’occhio. L’attuale via Cravero, ad esempio, rispetto alla via Casaregis e via Rimassa che sono parallele tra loro, ha un andamento obliquo: è pertanto facile arguire che doveva preesistere (come via al Lazzaretto e successivamente via al Cantiere) ad ambedue le vie parallele. Un’altra traccia rimasta pressoché immutata dal 1875, sono due palazzi posti nell’attuale via della Libertà (i civici 15 e 17) che prenderemo in esame nel presente studio.
Inquadramento storico
Dopo i ben noti episodi storici di inizio Ottocento, culminati per l’antica Repubblica Aristocratica genovese con l’annessione al novello stato del Regno di Sardegna, Genova dovette attendere circa sessant’anni per trovare nuovo slancio per riaffermare la sua grandezza del passato, soprattutto grazie all’unificazione politica della penisola che portò alla creazione di uno stato italiano.
Le Autorità comunali prevedevano per Genova un’espansione edilizia nella direzione di levante, occupando con edifici la piana del Bisagno: per fare ciò, occorreva che la zona fosse annessa al comune genovese, ma i comuni interessati erano contrari, anche perché la popolazione coinvolta non voleva abbandonare le coltivazioni. Il problema si presentava difficile in quanto la maggior parte delle abitazioni della piana erano in affitto, come i terreni coltivabili. L’ampliamento della città (sancito dal Regio Decreto del 26 ottobre 1873) interessò i comuni della Foce, Marassi, Staglieno, San Fruttuoso San Martino di Albaro e San Francesco di Albaro: ciò permise la realizzazione del progetto di inurbamento della piana.
Realizzazione di una nuova via     

Circa dieci anni prima dell’episodio appena descritto, con progetto di Francesco Argenti del 1865, fu realizzata una via di comunicazione che doveva collegare il cantiere navale della Foce con la nuova Via Minerva sita nell’abitato denominato Borgo della Pila ricadente nel comune di San Francesco d’Albaro: tale costruzione si rese necessaria, forse, per l’aumento di operai che lavoravano all’interno del già citato cantiere e quindi per agevolarne l’accesso. Il progetto,visibile negli atti del Comune di San Francesco d’Albaro del 21 gennaio 1865, può essere considerato come antesignano delle opere di sistemazione urbanistica a scacchiera, realizzate negli anni successivi sulla piana del Bisagno.
La via fu chiamata inizialmente via nuova al Cantiere, per non confonderla con quella del borgo, successivamente prese il nome della Libertà probabilmente perché costruita dai galeotti presenti in una parte dell’ex edificio del Lazzaretto.
Fu costruita a livello della piana stessa, risultando in leggera discesa verso il mare. Nella parte terminale, all’incrocio con l’attuale via Ruspoli, è presente il punto più basso di tutte le sedi stradali della Foce odierna, dove è più facile il formarsi di allagamenti in caso di alluvioni. Nel progetto, la strada terminava simmetricamente con due piazze.

Progetto di strada tra l'abitato della Pila e il Regio Cantiere di costruzioni navali
(Archivio Storico Comune di Genova, inv. 1122/55)


Piani Regolatori                                                                                 
In contemporanea con il “decreto di annessione” ne fu emanato un secondo che può essere considerato il primo piano regolatore di Genova: Progetto di massima dell’ampliamento della città. La stesura del progetto fu elaborato dall’Ufficio dei Lavori Pubblici del Comune di Genova ma non ebbe attuazione: tale pianificazione prevedeva lo spostamento del corso del torrente Bisagno verso levante a ridosso delle pendici della collina di Albaro e nello spazio, dove verrà realizzata l’attuale piazza Palermo, era prevista la costruzione di una chiesa.
La programmazione per l’inurbamento della piana del Bisagno andò avanti e nell’anno successivo furono emanate due delibere comunali: quella del 21 aprile si occupò dei finanziamenti da stanziare per effettuare un’opera di rilievo per il piano di ingrandimento del Bisagno, nella seconda delibera, del 13 ottobre, il provvedimento riguardò un “piano di massima” perfezionato con un “regolamento” (edilizio?) del 19 novembre.
Nel 1875 fu perfezionato il piano regolatore del 1873 (Progetto per l’ampliamento della città) ma si dovette attendere altri due anni per raggiungere una più definitiva pianificazione urbanistica. Fu un piano che potremmo considerare “speculativo” apparentemente poco studiato che dispose l’edificazione in una “piana alluvionale” che non valutava con cognizione di causa le frequenti inondazioni.


Progetto di massima dell’ampliamento della città, Archivio Storico Comune di Genova



Nuove costruzioni       
                                                                       
Le aree fabbricabili, individuate nello spazio compreso tra le attuali via Eugenio Ruspoli e passo Lorenzo Pareto, poste nella nuova strada, e di proprietà di soggetti privati, furono sette. I quattro terreni edificabili, posti nella parte di tracciato stradale a ponente, furono oggetto di realizzazione nel biennio 1875 – 1876: nell’attuale via Finocchiaro Aprile (civico 6) è presente un altro edificio riconducibile al 1875.
Consultando l’incartamento del fascicolo originale (N° 17 e N° 69 del 1875), relativo ai due civici in oggetto, si rilevano tre informazioni importanti: la prima riguarda la “rappresentazione” della via Lorenzo Pareto in quanto segnalava il confine dell’antico comune della Foce: tale strada, nella “relazione di progetto”, è definita via Storta, richiamo all’antica via presente anche nella mappa del catasto napoleonico del 1808, Crosa storta della Foce. Il secondo dato significativo riguarda l’indicazione del regolamento del 1874 già citato: la distanza fra gli edifici è fissata in metri dieci (aumentato poi a quindici con il piano regolatore del 1877), mentre la larghezza delle strade è stabilita in metri quindici. L’ultima notizia degna di essere annotata è il tracciato di una strada che interseca la nuova via al Cantiere, che secondo il progetto del piano regolatore avrebbe dovuto arrivare fino all’attuale corso Torino: ciò non avvenne e la realizzazione di questa via di comunicazione si fermò all’attuale via Maddaloni.

Rielaborazione grafica lotti da costruire (senza scala)





I primi due edifici di civile abitazione
Le prime due aree edificabili, su cui furono costruiti i primi i due palazzi di quello che sarebbe diventato con il tempo il nuovo quartiere residenziale di Genova, erano di proprietà di un tal Luigi Deltorchio il quale realizzò due edifici uguali di sei piani fuori terra (più un sottotetto) e con un’architettura lineare.
Le superfici, su cui ancora oggi insistono i due caseggiati, sono di circa 610 mq. per il civico 17 e di circa 570 mq. per il civico 15.
Dai disegni progettuali dell’epoca si individuano degli “ornamenti architettonici” collocati nella parte di facciata principale che va dal piano terreno al primo piano, mentre sono posizionati dei marcapiano tra il primo e il secondo piano, tra il secondo e terzo e tra il quinto e il sesto; tali “decorazioni”, se furono realizzate, in un periodo imprecisato furono rimosse (secondo dopoguerra?).
Nello stabile civico 15 il marcapiano tra il primo e secondo piano è ancora presente, mentre le finestre collocate sopra al portone di ingresso non state realizzate; sono altresì sistemati quattro poggioli (al secondo e quarto piano) non previsti dal progetto.
Sappiamo che per il civico numero 17 nel 1963 fu modificata parzialmente la copertura del tetto, mentre la coloritura della facciata, interessò il civico 15 nel 1996 e forse anche in epoca anteriore nel 1969.

 Porzione di facciata principale



Curiosità                                                                                                      
Nel caseggiato contrassegnato con il numero 15, sopra al portone d’ingresso, è posta una lapide in ricordo della più antica società di atletica leggera, che recita quanto segue: il giorno 7 giugno 1907 in questo sito un gruppo di giovani del quartiere dette vita alla SOCIETA’ SPORTIVA TRIONFO LIGURE destinata a mantenere accesa nel tempo la fiaccola dello sport più duro e appassionato. Nel centenario gli eredi della ideale staffetta posero. Il fondatore di tale società sportiva fu il signor Alessandro Zuccotti.

 Lapide S.S. Trionfo Ligure



Documentazione fotografica    

Facciata principale civico 15
     
                                                         
Facciata principale civico 17



giovedì 16 luglio 2020

UNA RIBOTTA FINITA MALE: BULLI E PUPE ALLA FOCE



Pierre Tetar Van Elven (1828-1908), La partenza dei Mille, Genova, Museo del Risorgimento

Maria Rosa Acri Borello

L’attività più antica degli abitanti della Foce, fin dai tempi in cui essi vivevano in misere capanne di legno con il tetto di paglia, fu quella della pescatoria (o, alla latina piscatoria”). Le imbarcazioni di cui si servivano sia per la pesca sia per il trasporto di merci o persone, erano il gozzo oppure il burchiello, più volte citato nelle nostre “ricerche”, in particolar modo in quella sul trasporto della maggior parte dei Mille (4-5 maggio 1860) dalla spiaggia sassosa della Foce ai vapori “Piemonte” e “Lombarda”, che li attendevano al largo (v. primo volume). A proposito delle imbarcazioni dei Foceani o (Focesi), nel famoso quadro del pittore danese Van Elven, conservato nel Museo del Risorgimento di Genova, appaiono quasi in primo piano un barcone contenente una decina di persone e un’imbarcazione dal fondo piatto e di forma affusolata. Su quest’ultima, due importanti personaggi della cerchia di Garibaldi (fiero repubblicano, ma nel 1860 temporaneamente “convertito” alla monarchia) il medico patriota Agostino Bertani, elegantissimo come sempre, con impeccabili pantaloni bianchi; l’uomo che volta la schiena, come se non volesse essere riconosciuto (allusione alla mente volpina e cospirativa del siciliano Francesco Crispi), sta leggendo un telegramma. È il “falso dispaccio” che Crispi fabbricò con l’aiuto del genovese Nino (Girolamo) Bixio per convincere Garibaldi, che aveva deciso di non partire e voleva, invece, ritornare nella “sua ”Caprera, a tentare un‘impresa che, obiettivamente, sembrava ed era “impossibile a realizzarsi”. E, con l’aiuto della buona sorte e grazie al valore di quei “diavoli scatenati”, vittoria fu! Ritornando al quadro del pittore danese, in un altro barcone, alcuni signori e signore “borghesi”, tutti col cappello in testa e seduti sul fondo dell’imbarcazione, sembrano attendere la partenza. Solo una donna è in piedi, accanto all’albero maestro: è senza cappello, perché è una popolana, e il suo sguardo è rivolto al Sud, alla Sicilia. È Rose Montmasson (detta Rosalie e, successivamente, Rosalia) l’unica donna che partecipò alla Spedizione dei Mille e fu volontaria infermiera degli Ospedali militari di Palermo e di Alcamo. Alla fine del 1854, a Malta, aveva sposato con rito cattolico Francesco Crispi, con cui aveva condiviso l’esilio, a Torino, e le successive lotte politiche (di origine savoiarda e di famiglia assai modesta, era una fervente repubblicana). Nel quadro compaiono alcuni pescatori e rematori della Foce. Fra questi vi era anche un “bisagnino” (le cronache del tempo lo indicano come “ortolano”): Tommaso Parodi (per età il più anziano dei Mille, che in gioventù aveva combattuto, assieme agli esuli liguri della Legione italiana, sotto il comando di Garibaldi, per la libertà del Paraguay. Quasi certamente questi valorosi rematori affrontano la fatica del trasporto di uomini e bagagli non per averne un vantaggio materiale né per un astratto “amor di patria” ma più semplicemente per l’entusiasmo di poter partecipare, quantunque in forma anonima e quasi marginale, ad una delle più grandi “avventure” della nostra Storia. Per il piacere di poter dire a figli e nipoti: “C’ero anch’io! ”.


In genere, però, i pescatori della Foce, com’è umanamente comprensibile, erano abbastanza attenti al guadagno: poiché la vendita del pescato, per un motivo o per l’altro, secondo loro, non “rendeva abbastanza ”, certuni si davano ad attività illecite come il contrabbando di sale, di olio, di vino, soprattutto nottetempo, quando il numero delle guardie daziarie era più esiguo ed era più facile il poter nascondersi (o nascondere le merci ) dietro le rocce di quella spiaggia sassosa ed impervia (se scoperti, e ciò accadeva abbastanza spesso, erano condannati dal Tribunale Civile al pagamento di salatissime multe o, se trovati recidivi, a qualche mese di carcere duro).

Alla Foce, diventava Comune autonomo, alle succitate attività illecite, esercitate non per spirito di avventuroso ma esclusivamente a scopo di lucro, si aggiungeva la prostituzione femminile: questa era esercitata, sotto il controllo del Governo (ma qualcuna delle “ragazze ”, qualche volta riusciva ad evadere da quella prigionia volontaria), in determinate “case”, note a tutti i Genovesi, della periferia cittadina dette appunto“ di tolleranza ”. Uno di questi edifici si trovava nel centro storico, dalle parti dell’odierno stradone di Sant’Agostino in una strada collegata al mare da un sentiero in discesa dal Colle di Carignano fino a quella strada di sassi e rocce, dove, terminate le operazioni di approdo e di scarico del pescato, le barche, così come accadeva nel porticciolo del vicino porto di Boccadasse, erano “tirate in secco”.
A metà strada, fra il culmine del Colle di Carignano e la spiaggia della Foce, vi era un’osteria in zona già foceana in cui si preparava un’ottima focaccia salata. Trovandosi quella locanda in un luogo lontano dall’abitato e, soprattutto, in una zona, in quanto non facente parte della città di Genova, fuori dalla cinta daziaria, il vino vi si vendeva, si smerciava e si… beveva con maggior larghezza che altrove, poiché il prezzo era giudicato conveniente anche per la vendita al minuto. Non si trattava, soprattutto di notte, di un locale per signorine di buona famiglia o per gente per bene, essendo frequentato per lo più, oltre che da pescatori, da contrabbandieri, “mezzani” (tutti armati di coltello a scopo, essi dicevano, di difesa), da ladri, che trovavano in quell’osteriaccia un punto di ritrovo dove potevano smerciare gli oggetti rubati, e da prostitute. Tutto questo, cioè questa lunga digressione, dovrebbe servire a dare l’idea che, in qualche modo, sulla spiaggia sassosa della Foce (e dintorni), nelle notti senza vento, con il mare in bonaccia e la Luna, necessariamente in fase calante perché non svelasse con la sua pallida luce le malefatte della “malagente” e delle “donne perdute”, poteva accadere di tutto. Anche un omicidio: commesso, in apparenza, “per futili motivi”. Ma è noto (e non solo ai criminologi) che la “futilità”, dopo molti bicchieri di vino e qualche insulto, accompagnato talora da un atto violento, si trasforma in risentimento e rabbia. E la rabbia in odio bestiale …


Il “fattaccio ”, avvenuto il 28 settembre 1878, così recita la cronaca nera del tempo (il testo originale è tratto dal numero del 25 settembre 2016 del “Secolo XIX”, scritto in vernacolo ed ivi tradotto in lingua italiana ): “Alla Foce, in località San Nazaro sulla scogliera chiamata Ciappa Larga, la mattina di ieri, da due ragazzi sono state trovate tracce di sangue; altro sangue rappreso galleggiava sull’acqua. La Guardia Daziaria ha affermato di avere visto accostarsi alla spiaggia un’imbarcazione, dalla quale erano scesi sette uomini che ne trasportavano… un ottavo. Questi erano passati per un viottolo che porta a San Francesco (di Boccadasse). Qui (N.D.R. “Nell’edificio del convento dei frati francescani”) sono state fatte ricerche ma non è stato trovato nessun “ferito”. Nello stesso giorno venivano trovati due gozzi sulla spiaggia della Foce, uno dei quali con due remi rotti. Più tardi un pescatore ha trovato due fazzoletti intrisi di sangue, un paio di mezze calzette da uomo un paio di sottocalzoni, o mutandoni da bagno, anch’essi insanguinati. Tutta roba per gente di basso ceto… Inoltre per la città si andava mormorando che da una “di quelle case” di Salita Mascherona e precisamente in quel medesimo giorno mancavano due ragazze. Inoltre la sera precedente il “fattaccio”, dentro un’osteria “sita nei dintorni della Foce”, con due giovani donne si erano fermati a bere ed a mangiare parecchi giovanotti che, dopo essere usciti dall’esercizio, tutti insieme, si erano diretti verso la riva del mare. Comunque, permanendo fitto il mistero (non è stata ancora scoperta l’identità di quei giovani uomini e di quelle ragazze), la cittadinanza desidererebbe sapere qualcosa dalle Autorità competenti, che però “fanno orecchio da mercante”, cioè fanno finta di non sentire come “o sordo”, per non dovere rivelare all’opinione pubblica il fallimento delle indagini. Non era stato ritrovato nessun cadavere né di uomo né di donna alla Foce né altrove. Un altro cold case di fine Ottocento? Il mare e l’omertà coprirono ogni cosa. E, ieri, come purtroppo, anche oggi, il solito “non luogo a procedere”… 




Nota Bibliografica

Le notizie storico topografiche sono state tratte da: I quartieri di Genova antica di Giulio Miscosi (Genova, Compagnia dei Librai, 2004); Antica Foxe del Gruppo Antica Foce, Genova, Arti Grafiche Francescane, 2018; Genova Garibaldina e il mito dell’Eroe nelle collezioni private, a cura di Luciano Morabito, Genova, De Ferrari 2008.

venerdì 10 aprile 2020

GLI ORTI DELLA FOCE


Edoardo Maragliano

Osservando alcune stampe di Genova (per esempio quella del Baratta) e portando lo sguardo a Levante oltre il Bisagno, ciò che ci salta subito agli occhi è l’ampio spiazzo quadrato circondato da muri (il Lazzaretto) e lo scoscendimento della collina che, digradando dolcemente, va a lambirlo.
Questo lembo della collina divide lo spazio in una parte affacciata al mare e, verso Nord, un’altra coltivata ad orti.
Tutto ciò rappresenta l’antico paese della Foce che, proprio per la sua conformazione, è stato popolato tanto da pescatori che da ortolani, i cosiddetti Bisagnini.
Dalle mappe della Foce della prima metà dell’Ottocento, possiamo constatare che, mentre le case dei pescatori sul mare sono raggruppate tanto da formare un piccolo borgo, quelle abitate dagli ortolani al di là della collina sono sparse nella campagna e dislocate sul percorso di una rete di viottoli. Di tutti questi viottoli oggi è rimasta traccia di uno solo, rappresentata dai vari tratti d’una via che di volta in volta è Via Lorenzo Pareto che idealmente si può congiungere con Passo Pareto che a sua volta, con l’immaginazione, deve essere collegata con Vicolo Chiuso Pareto. Quest’ultimo troncone lo si può imboccare da Via Finocchiaro Aprile e, se lo si percorre nel breve tratto ancora esistente, si possono ancora vedere le antiche case dei bisagnini della Foce.
Gli orti della Foce rappresentano l’ultimo tratto della piana del Bisagno che, come noto, è una pianura alluvionale. Durante le alluvioni il Bisagno straripava e, non incontrando ostacoli, si espandeva per ogni dove, lasciando, quando si ritraeva, uno strato benefico di limo che andava a fertilizzare gli orti, e ciò costituiva un gran vantaggio per i bisagnini. Un altro grosso vantaggio era la ricchezza delle acque sotterranee che venivano attinte con i congegni detti ‘cicogne’. Esse erano in uso già da tempi immemorabili: noi le possiamo vedere raffigurate per esempio nella stampa di Alessandro Baratta del 1637.
Non si sa quando i bisagnini si insediarono in questa piana: certamente i loro ortaggi divennero sempre più richiesti con l’’espandersi di Genova, per cui si può pensare che il loro numero sia cresciuto moltissimo dopo la costruzione delle mura del Seicento.
I bisagnini col passare del tempo divennero sempre più esperti nella loro arte tanto da divenire rinomati non solo in tutta Genova, ma anche nelle Riviere. A Genova, poi, anche oggi un qualsiasi fruttivendolo viene chiamato ‘besagnin’ per antonomasia.
I bisagnini ovviamente coltivavano qualsiasi tipo di ortaggio, ma quelli di cui andavano più orgogliosi erano i carciofi (il famoso carciofo spinoso violetto) e gli asparagi (l’asparago viola).
È interessante conoscere anche come i bisagnini della Foce commerciassero i frutti dei loro orti. All’alba di ogni mattina, sia con carretti a mano sia con carri trainati da muli, entravano nella città e si distribuivano nelle varie piazze ove si teneva mercato. Per entrare in città, dopo aver attraversato il Ponte Pila, oltrepassavano la Porta omonima (esiste tutt’ora e là si può vedere sopra la stazione Brignole) per giungere alla Porta degli Archi da cui si sparpagliavano in tutta la città.
Oggi sia gli orti della Foce che quelli di tutta la piana del Bisagno sono scomparsi in quanto, al loro posto, sono stati edificati i palazzi del piano regolatore di ampliamento del 1877.
A mano a mano che l’orto veniva occupato da una nuova costruzione, il bisagnino era costretto ad emigrare in altre località dove poteva continuare ad esercitare la propria attività. La località preferita dalla maggior parte dei bisagnini è stata Albenga, dove v’è una piana dalle caratteristiche molto simili a quella del Bisagno.
Ad Albenga i nostri bisagnini vi esportarono la loro arte ed esperienza. A questo proposito sono a disposizione numerose testimonianze orali di ortolani di Albenga che affermano che i loro nonni erano dei bisagnini.