sabato 21 dicembre 2019

TRASLOCO D'ALTRI TEMPI...

 "IL LAVORO", settembre 1937
(Dalla pagina facebook "C'era una volta Genova"



Post di Daniele Cagnin


lunedì 16 dicembre 2019

LA FOCE NEL SEICENTO

(dalla pagina Facebook "C'era una volta Genova")

Questo dipinto del pittore olandese Guilliam van Deynum (1), che ritrae l'Arciduca d'Austria e Margherita d'Austria in occasione di un ricevimento in Albaro (1607), ci dà un'interessante rappresentazione della Foce, molto probabilmete vista da una delle ville nobiliari della zona e potrebbe anche aver dato ispirazione ad Alessandro Magnasco per il suo noto quadro.



1) Guilliam Van Deynum (Anversa 1575 ca. - Bruxelles 1624) arrivò a Genova nel 1602 in compagnia di due fratelli, uno dei quali si chiamava Antoni, mentre dell'altro il nome non è stato conservato. Deve aver raggiunto presto il successo mentre dipingeva un ritratto del doge locale Agostino Doria seduto su un trono con la sua famiglia non molto tempo dopo il suo arrivo. È noto che fu vittima di un assalto nel 1606 e che nel 1607 fu incarcerato per mancato pagamento in un caso riguardante la sua attività di commerciante d'arte. Il Ritratto di una donna genovese in abito nero (Palazzo Bianco - Genova) del 1610 è l'ultimo dipinto datato attribuito al periodo della sua residenza a Genova. Si ritiene sia rimasto a Genova fino al 1613. 

domenica 17 novembre 2019

IL GROSSO DEI MILLE SI IMBARCO' ALLA FOCE



Gian Carlo Moreschi

Abito alla Foce da sempre e da molti anni mi sono appassionato alla sua storia e ho potuto “scoprire” la centralità della Foce nella vicenda della Spedizione dei Mille.
Il vedere riconoscere (soprattutto a partire dal 2009) questo grande torto della storiografia ufficiale è stato indubbiamente piacevole. Tanti potranno ritenere questa affermazione priva di sostegno storico ma in realtà vi sono ben cinque riferimenti a confermarla. Eccoli.
Giuseppe Cesara Abba, uno dei Mille, nel suo Da Quarto al Volturno, descrivendo la ricerca di una madre del figlio garibaldino per convincerlo a non partire, dice «corse di qua, di là, da Genova alla Foce, dalla Foce a Quarto, chiedendo, pregando, e tanto fece che lo trovò». Questo ad indicare come questi due luoghi fossero i punti di concentramento dei volontari.
Raffaele Rubattino, armatore delle due navi “Piemonte” e “Lombardo” in una lettera afferma: «Alla domenica mattina mi svegliano e mi dicono che nella notte erano stati presi in porto due nostri vapori, il Lombardo e il Piemonte; che erano partiti con circa 1000 persone, che si erano imbarcate fuori dal porto alla Foce».
Federico Donaver, storico genovese, nel suo Spedizione dei Mille riferisce: «Assestate le cose a bordo, accese le macchine, verso le 2 antimeridiane del 6 vapori si staccarono, il Lombardo a rimorchio del Piemonte, perché in quello la macchina non funzionava ancora regolarmente, e uscirono dal porto senza trovare incagli di sorta. Fuori da porto s’imbatterono in una barca sulla quale era Garibaldi che impaziente era venuto loro incontro e salì a bordo del Piemonte, poi dalla Foce in su trovarono molte barcaccie nelle quali erano volontari, il carbone, le provviste, delle armi e delle munizioni, imbarcando ogni cosa. Arrivarono finalmente rimpetto a Quarto, dove si avvicinarono quanto era possibile alla spiaggia per imbarcare il grosso della spedizione e lo stato maggiore della stessa».
Nino Bixio, nel suo Diario, scrive: «Alla Foce uomini 150, Bogliasco 20, Villa 120», facendo probabile riferimento a Villa Spinola.
I pescatori della Foce, infine, per il Cinquantenario della Spedizione, ritennero di apporre una targa commemorativa che ora si trova sulla Casa dei Pescatori in prossimità del ristorante nella omonima via.
Il perché in realtà si sia voluto enfatizzare Quarto, lasciando la Foce nell’oblio, solo gli storici potranno dirlo. Ristabilire la verità potrebbe essere un valido inizio.
Articolo già presente sul Secolo XIX del 7 gennaio 2010

domenica 13 ottobre 2019

PRESENTAZIONE





A FORMA FOXE 

Armando Fossati

IL volume ha come fondamento il materiale storico raccolto in preparazione delle tre conferenze annuali sul quartiere Foce (Genova), tenute dagli autori presso la Sala Consiliare del Municipio Medio Levante:

1. Dall'inizio dell'Era cristiana fino al Seicento;
2. Settecento - Ottocento;
3. Prima metà del Novecento.

Nel volume viene mantenuta la medesima divisione in tre parti. La terza parte purtroppo è rimasta incompleta.

Ritengo importante, prima di tutto, sottolineare la serietà scientifica del metodo di indagine utilizzato dagli autori di questo lavoro. A conferma di questo è sufficiente quanto segue:

1) Si segnala una nutrita presenza di note a fondo pagina, che trovano riscontro in una ricca Bibliografia; tutto questo mette in evidenza la scrupolosità del lavoro di ricerca e soprattutto    l'impegno paziente nel metodo di studio degli autori; le citazioni delle fonti del resto sono sempre      puntuali ed appropriate.

2) Il "corredo" di foto, riferibili a documenti autentici (Piante, incisioni, Mappe, Progetti e Piani      Regolatori, Dipinti ecc.), e la stesura di 8 Tavole, sono un segno della volontà di chiarire e                  confermare ulteriormente quanto affermato nel testo.

3) La passione con cui gli autori hanno lavorato non ha mai preso il sopravvento sulla base            scientifica: ben poco spazio è stato concesso ai voli di fantasia, in una materia che, specialmente          nella prima parte, si presterebbe invece a questo errore di metodo.

4) Un ulteriore segnale di serietà è dato da quelle parole che troviamo nell'Introduzione a pag. 10: l'avvertenza che il volume non può essere inteso come depositario di una "verità rivelata", ossia di    conclusioni definitive, ma deve essere preso come un "buon punto di partenza" per chi voglia            ulteriormente discuterne ed approfondire, proseguendo così nelle ricerche.

Indubbiamente in questo volume non mancano gli spunti per ulteriori sviluppi: direi, anzi, che uno dei pregi del lavoro è proprio la sua "apertura" verso il dibattito, la discussione: insomma, gli autori offrono al lettore un "materiale" storico ricco di suggerimenti utili ed interessanti.

Non si tratta certo di un libro di facile lettura; infatti gli autori hanno cercato in tutti i modi di evitare la tentazione di scrivere una storia romanzata, che forse avrebbe esercitato un fascino maggiore sul lettore, a scapito però della credibilità storica. I singoli documenti, i fatti storici, le riflessioni degli autori sono presentati in uno stile essenziale ed asciutto, a volte perfino un po' scarno, che dimostra la ferma intenzione di attenersi ai fatti concreti.

A giudizio mio personale, per capire a fondo la validità dell'opera, è necessario leggerla e rileggerla più volte, al fine di cogliervi un filo conduttore. A questo proposito, occorre precisare che il lettore rischia di arrivare alla fine della lettura con l'impressione della frammentarietà dell'opera, perdendo così la visione d'insieme della storia. Questa impressione è più evidente per la prima parte; ciò si spiega con il fatto che i documenti a disposizione per i secoli più lontani da noi sono, fino ad oggi, inevitabilmente scarsi. Inoltre, sempre riguardo alla prima parte, vale quanto affermato nella conclusione delle riflessioni sull'etimologia della parola "Foce": nel periodo più antico e nel periodo medievale "la zona dell'attuale Foce non era ancora formata geologicamente: non esisteva!", ossia non era ancora classificabile come insediamento urbano. Pertanto gli autori, per la stesura della prima parte, non potevano che citare cronologicamente i rari documenti storici a disposizione, limitandosi ad un commento storico ragionato su ciascuno di questi.
Se vogliamo individuare la Foce come Borgo o quartiere abitativo, dobbiamo attendere il secolo XV. I documenti a disposizione sembrano dimostrare che in tale secolo, e cioè verso la fine del Basso Medioevo, sia oggi possibile ipotizzare la graduale formazione di un Borgo della Foce, cioè di un primo insediamento urbano.

L'elemento che, a mio giudizio, fa da filo conduttore di questo volume sta nei criteri e nel metodo utilizzati nella ricerca: esso consiste nel voler evidenziare la presenza dell'uomo sulla base di categorie ben precise, che si ripetono per ogni epoca: mi riferisco all'attenzione che gli autori rivolgono ai segni della presenza umana: edifici e centri religiosi, costruzioni, sistema viario, opere militari, insediamenti abitativi, attività economiche, rilevabili in misura molto rara e discontinua nella prima parte, ma via via sempre più intensa nei periodi successivi, fino al Novecento.

Questa costante "sete" di conoscere la storia di un quartiere, attraverso la testimonianza delle attività umane e la verifica ragionata dell'attendibilità delle fonti, conferisce alla pubblicazione una sua apprezzabile unità, che però può essere colta dal lettore soltanto attraverso una lettura accurata ed attenta di tutte le pagine.

A questo punto vorrei concludere con un'osservazione finale, che nasce spontanea dopo la lettura attenta di questo libro: la prudenza e quasi il timore di sconfinare nel fantasioso e nel romanzesco inducono gli autori ad affrontare scrupolosamente la ricostruzione storica ed a formulare ipotesi ma, nello stesso tempo, a lasciare spazio a possibili ipotesi diverse. Credo che questa sia la posizione corretta del ricercatore onesto.

30/09/2019

sabato 15 giugno 2019

LA MADONNA DELLA FOCE

Alla Foce molti ricordano che in Via San Pietro della Foce, un breve tratto di strada tra Via Cravero e Via Casaregis, in una nicchia sulla facciata del palazzo verso sud, c'era una nicchia con una statuetta della Madonna. Per alcuni anni del dopoguerra, fin verso la fine degli anni Cinquanta del secolo scorso, quella Madonnina guardava la piccola cappella della Parrocchia dei Santi Pietro e Bernardo che, modestamente allestita in un garage, funzionava come luogo di culto per i fedeli della zona.
Un giorno, purtroppo quella Madonnina è sparita per colpa di ignoti... Per fortuna, un benefattore che vuole conservare l'anonimato, si è impegnato a far realizzare  dalla brava ceramista Anna Dufour una nuova bella statuetta che è stata benedetta, con una breve cerimonia a cui hanno partecipato molti fedeli, da padre Venanzio M. Ramassa il 18 maggio 2019.






domenica 2 giugno 2019

LA FOCE DURANTE IL BOMBARDAMENTO NAVALE FRANCESE DEL 1684

Edoardo Maragliano




Guardando questa bella foto che riproduce la spiaggia del Borgo della Foce dove tutto ci conduce ad un sentimento di serena operosità, sarebbe difficile credere che in una notte del 1684 vi si sia svolto un cruento scontro tra marinai sbarcati da una scialuppa dell’equipaggio francese e popolani del borgo stesso.
Anche se poco credibile questa è una storia vera che deve essere inserita nel suo contesto.
I fatti a cui ci si riferisce sono i seguenti:
Da un po’ di tempo il re di Francia Luigi XIV cercava un qualsiasi pretesto per interferire nei commerci e nella vita pubblica di Genova, cui voleva imporre la propria volontà. Le provocazioni divennero sempre più tracotanti, finché sfociarono nella richiesta di disarmare quattro galee appena costruite e nell’esigere la creazione di un grande deposito di sale gestito dalla Francia, ben sapendo che questo rappresentava uno dei maggiori cespiti di guadagno della nostra Repubblica.
Genova, di fronte a questa imposizione, non si piegò e così in una sera del Maggio 1684, ben 160 galeoni francesi si schierarono dalla Lanterna alla Foce. Un secco ultimatum venne inviato alla città: soddisfare le richieste o vedere Genova completamente distrutta. Le richieste furono orgogliosamente respinte: la reazione francese fu immediata.
Dei seimila edifici che componevano la città, ne furono colpiti duemila, di questi circa mille andarono completamente distrutti. Il Maggior Consiglio respinse le richieste, dicendo che Genova non trattava sotto il fuoco nemico. Il bombardamento allora riprese fino a che tutte le munizioni si esaurirono: le bombe sparate furono 13.300.
Tutto questo racconto, da cui vien fuori come le autorità si fossero mostrate all’altezza dell’orgoglio della Superba, non tiene conto però del meritorio comportamento del popolo cui si deve l’aver impedito ai francesi di giungere sulla terra ferma. Essi, infatti, col favore delle tenebre sbarcarono sulla spiaggia della Foce. Le fonti ci dicono che furono proprio i pescatori e i bisagnini della Foce a sbaragliare i “nemici” che si diedero ad un precipitoso reimbarco, lasciando un buon numero di morti sulla spiaggia. Lo stesso comandante delle operazioni, il marchese di Ambreville, se ne fuggì, dopo essere stato raggiunto da un colpo di moschetto alla coscia.
NOTA (Cfr. A Forma Foxe – 1ª parte – , anticafoce.blogspot.com – ottobre 2017)
I danni più rilevanti subiti nella zona della Foce furono i seguenti:
Oratorio della Foce: l’edificio subì alcuni danni strutturali e probabilmente la perdita dell’archivio.
Chiesa di San Vito: dopo il bombardamento la chiesa necessitava di un urgente restaurato; la situazione fu parzialmente risolta, nel 1690, dal priore del convento di Santa Maria di Castello, Vincenzo Acquarone.
Chiesa di San Bernardo: i danni più ingenti furono riscontrati nel campanile.
FONTI DOCUMENTARIE
MICHELANGELO DOLCINO, Storia di Genova, Ed. Pirella 2003

PROGETTO di PIANO REGOLATORE della CITTA' di GENOVA

Ringraziamo l'ing Marco Borello che ci ha dato modo di consultare la copia di sua proprietà del

PROGETTO PER IL PIANO REGOLATORE DELLE ZONE DU PICCAPIETRA, S. VINCENZO E QUELLE A SUD DI VIA XX SETTEMBRE 

presentato al Concorso Nazionale Bandito dal Comune di Genova l'8 febbraio 1930 - VIII
pubblicato dallo Stabilimento Tipografico G.B. Marsano - S.A.E. - via Casaregis, 24 - Genova - Telefono 55.104 - MCMXXXI 
e pubblichiamo le pagine (78 - 85) che riguardano la zona della Foce.

[...]








lunedì 8 aprile 2019

IL GRIFO NELLA TRADIZIONE GENOVESE



Severino Fossati  con la collaborazione di Edoardo Maragliano
Tutti sanno che lo scudo rosso-crociato dello Stemma di Genova è sostenuto da due grifoni, che la squadra di calcio del Genoa ha come simbolo il grifone, che sul distintivo della “A Compagna” è presente un grifone, che alcune antiche monete di Genova (i quartari1) riportano l’effigie del grifone; diventa allora logico porsi il seguente interrogativo: da dove proviene, nella tradizione genovese, l’immagine del grifone2?
La risposta è duplice.
La prima ci proviene da un’opera letteraria molto diffusa nel Medioevo, i Bestiari3, da cui si potevano apprendere le proprietà di molti animali, anche di quelli fantastici. I Bestiari diffondono la leggenda che voleva i grifoni guardiani di tesori nascosti ed in particolare quelli costituiti da smeraldi, pietre che vengono accostate al simbolismo eucaristico.
A Genova questa peculiarità assunse un’importanza rilevante in quanto fu connessa al fatto che nella cattedrale si conservava, e si conserva tutt’ora, un tesoro d’inestimabile valore: il Sacro Catino.
Questa preziosissima reliquia (accostata all’episodio dell’Ultima Cena) è spesso, erroneamente, identificata con il Santo Graal e ritenuta di smeraldo (il materiale è di vetro colorato): il “vaso” fu portato a Genova da Guglielmo Embriaco da Cesarea in Terra Santa nel 11014.
Il grifo-guardiano unisce la funzione metaforica di figura della città come potenza vigile, accorta, guardinga e la funzione di guardiano della “reliquia smeraldina”. Difensore di molte cose preziose, il grifo era posto spesso a difesa degli ingressi delle chiese. Ma uno dei loci comune più frequenti della cultura genovese del XII secolo era l’identificazione fra la porta e la città. Già dal X secolo, infatti, il toponimo latino della città, Genua, fu tralasciato per impiegare un’altra forma, Janua, che alludesse apertamente al concetto di “porta”, e al destino di una città in fase di pieno sviluppo economico, porta fra Mediterraneo, Italia e Europa. In ultima analisi, pertanto, il “tesoro” di cui il grifo doveva essere il solerte custode erano la città stessa e la sua pace.
La seconda spiegazione, di minor immediatezza, ma forse più pregnante della prima è la seguente: l’immagine del grifo doveva essere rimasta impressa nella memoria collettiva in quanto già presente tra la popolazione autoctona ancor prima della nascita di Genova. Infatti l’immagine del grifo, secondo quanto riporta l’enciclopedia britannica, è già presente in Oriente nel secondo millennio a.C., si ritrova nell’Asia occidentale intorno al 1500 a.C., era comune nell’isola di Creta più o meno in questo stesso periodo e da qui nel 1400 a.C. circa giunge anche in Grecia. L’enciclopedia dice anche che il grifo era considerato “sacro” e che compariva frequentemente nei santuari e sulle tombe.
Se quindi l’immagine del grifo non è nata a Genova, come e perché vi è giunta?
Per rispondere a questa domanda è doveroso aprire una parentesi.
Durante il corso degli scavi sulla collina di San Silvestro, condotti dal Centro Ligure per la Storia Materiale (ISCUM) a cui anche noi abbiamo preso parte attiva5, si sono rinvenuti preziosi reperti per la definizione del primo “insediamento urbano” della nostra città. In particolare sulla sommità della collina, vicino ai ruderi6 della Chiesa di San Silvestro, si sono trovati due robusti tratti di cinta difensiva rivolti a levante databili, attraverso reperti ceramici e bronzei, ad un periodo posto tra il VI ed il III secolo a.C.
Tra i reperti ceramici si è trovata non solo ceramica etrusca ed indigena ma anche quella greca e massaliota: quest’ultima è di facile attribuzione in quanto è la sola a contenere tracce di mica che, brillando, è facilmente riconoscibile. Tali reperti sono perfettamente in armonia con le pubblicazioni che stabiliscono che la nascita di Genova sia dovuta proprio al fatto d’essere stata un punto d’incontro tra navigatori greci, massalioti, etruschi ed una popolazione indigena che aveva preso stanza sulle alture della collina di San Silvestro7.
Per quanto riguarda la colonizzazione greca nel bacino occidentale del Mediterraneo, gli storici8 sono concordi nel sostenere che i focesi9 di Focea pressati dai persiani, abbiano ricercato nuovi insediamenti anche molto lontani dallo loro patria e precisamente non solo in Corsica (Aleria), Magna Grecia (Regio), Lucania (Velia), Iberia (Maenaca) ma anche e soprattutto a Massalia (l’odierna Marsiglia).
Se diamo per certa questa “informazione”, è plausibile ritenere, quindi, che i greci-focesi direttamente, o soprattutto indirettamente, attraverso i loro coloni massalioti, abbiano intrattenuto stretti rapporti con l’emporio genuate.
Dalla voce FOCEA, sull’ Enciclopedia Treccani, possiamo leggere quanto segue:
«Focea: antica città dell’Asia Minore, fondata secondo la tradizione, dagli ateniesi e da emigranti della Focide. Essa fu dominata dapprima da discendenti di Codro e aderì alla confederazione ionica […] La monetazione10 dell’antica Focea – fra le più antiche e celebri del mondo classico – attesta, nei suoi pezzi di elettro (denominazione data ad una lega di argento e d’oro), coi simboli del grifone e della foca (detti perciò nell’antichità “i focaici”), un sistema speciale di fusione; essa perdura fino ad Alessandro Magno».
A questo riguardo è doveroso precisare che sulle monete focesi vi è sempre il grifo o la testa di foca, mentre sulle monete massaliote si riscontra l’immagine del grifo, in un primo periodo, e l’immagine del leone per le epoche successive, da cui il golfo di Marsiglia prende il nome di Golfo del Leone.
Possiamo quindi pensare che l’immagine del grifone sia rimasta così impressa nella memoria collettiva tanto da indurne la riproduzione sulle monete dei quartari, allorquando l’Imperatore Corrado II concesse, nel 113911, la facoltà di battere moneta.
A Genova la decisione d’adottare12 il grifo, anche quale simbolo ufficiale, avvenne solo verso i primi decenni del XIII secolo e cioè nel pieno del conflitto tra il pontefice Innocenzo IV (dei conti Fieschi) e l’Imperatore Federico II (della casata di Svevia).
La scelta cadde sul grifo in quanto esso, essendo per metà aquila (simbolo dell’Impero) e per metà Leone (simbolo della papato), rappresentava non solo un compromesso per comporre le discordie tra i ghibellini (fautori dell’impero) e i guelfi (fautori del papato), ma anche un indirizzo politico di “autonomia comunale”, una sorta di “terza via”, come si direbbe oggi.
Per questi motivi nel 1226 si commissionò al “magistro campanario Oberto” l’esecuzione d’un grifo bronzeo da collocare in duomo. Esso vi rimase fino al 1296, anno in cui, a seguito di gravissimi disordini, il duomo fu incendiato ed anche il grifo bronzeo andò disperso o distrutto13.
Quando dieci anni dopo si trattò di riparare i danni subiti dalla cattedrale, si volle che del grifo distrutto se ne facesse una copia in marmo. Questa copia stette in duomo fino al 1797 e cioè fin quando fu venduta al marchese Alessandro Pallavicini (1800 – 1881), Questi fra il 1837 ed il 1846 aveva fatto costruire, dall’architetto Michele Canzio (1787 – 1868), una villa a Pegli dove riutilizzò il grifo trecentesco per decorare una fittizia “tomba dell’eroe”14. Solo nel 1985 il grifo marmoreo fu trasferito nel Museo di Sant’Agostino.
Inoltre è interessante ricordare anche l’esistenza di un gruppo marmoreo posto in fronte a Palazzo San Giorgio tra il 1284 e il 1290. Tale gruppo marmoreo, andato perso o distrutto e di cui abbiamo solo notizia dal manoscritto15 settecentesco di Domenico Piaggio, era formato da un grifo16 sovrapposto ad un’aquila (l’impero) e ad una volpe (Pisa): è da ricordare che in questo periodo Genova vinse i pisani nella battaglia della Meloria. Il senso di questa scultura era “completato” dal minaccioso motto dell’iscrizione sottostante: Griphus ut has angit sic hostes Janua frangit (come il grifo addenta l’aquila e la volpe, così Genova fa a pezzi i nemici17).
In conclusione potrebbe essere molto plausibile pensare che l’immagine del grifo sia stata esportata a Genova soprattutto dai coloni massalioti che, come sappiamo, sono a loro volta originari di Focea: lo stesso luogo in cui i genovesi fondarono, in epoca medievale, una loro “colonia commerciale”.
A questo punto possiamo porci la seguente domanda: «esiste in Genova un qualcosa che ricordi Focea, questa polis dapprima colonizzatrice di Marsiglia e poi colonia genovese da cui è stata tratta l’immagine del grifo?»
Per rispondere a questa domanda si è obbligati a risolvere una sorta di “enigma” (celato nel centro storico cittadino), talmente curioso da dare l’avvio alla stesura del presente articolo.
Ecco l’enigma: quando si percorre via Gramsci si può osservare che due vicoli che vi sboccano si chiamano vico foglie nuove e vico foglie vecchie!
Se vogliamo conoscere la ragione di questi toponimi bisogna consultare lo stradario di Monsignor Castagna18, dal quale si apprende che queste “denominazioni stradali” sono il frutto di una doppia distorsione della parola Focea.
Infatti in genovese la parola Focea diventa Foxia, che successivamente non viene capita come Focea ma come “foglia”, quindi traslata in Feuggie, e quindi italianizzata in foglie. E che questa soluzione sia esatta ci viene confermata dal fatto che in effetti vi sono due Focee, una nuova e una vecchia.


NOTE
1) Tra il XII e il XIII secolo fu emessa una moneta del valore di un quarto di denaro. E’ una moneta molto piccola con un titolo di argento intorno al 20/1000. Ha un diametro di ca. 15 mm. La decisione di raffigurare il grifone avvenne nella prima metà del XIII secolo.
2) Nell’antico Oriente era già presente una “creatura mista” (nella cultura assira) da cui è derivato il “Cherubino” ebraico. Nel Medioevo il grifone rappresenta simbolicamente Gesù nella sua doppia natura, umana (il leone) e divina (l’aquila). Cf. DANTE ALIGHIERI, Divina Commedia – Purgatorio, CANTO XXIX.
3) E’ un testo che descrive gli animali nella sua anatomia e nel comportamento. Cf. CHARBONNEAU-LASSAY 1975, p. 374.
4) DI FABIO 1989, pp. 1 – 44.
5) FOSSATI – GARDINI, 1979. Le perone che parteciparono agli scavi furono: Severino Fossati (1936 – 2018), Alexandre Gardini, Edoardo Maragliano e Onofrio Pizzolo con la “sovrintendenza” di Tiziano Mannoni (1928 – 2010).
6) Attuale aula magna della facoltà di architettura.
7) DE NEGRI 2003, pp. 28 – 32.
8) ACCINELLI, Compendio delle Istorie Genovesi, (TOMO 3).
9) Questa “popolazione jonica” dell’antica Grecia continentale, in parte si stabilì verso la fine del II millennio a.C. in varie isole dell’Egeo e sulle coste dell’Anatolia occidentale.
10) E’ pertanto logico pensare che questa moneta con l’effigie del grifone sia stata divulgata anche a Genova dai greci-focesi o, in epoca successiva, dai massalioti.
11) PAVONI 1981.
12) BASCAPE’ 1961, pp. 17 – 20.
13) DI FABIO 1989, pp. 1 – 44.
14) Idem.
15) Epitaphia, sepulcra et iscriptiones cum stemmatibus, marmorea et lapidea existentia in ecclesibus Genuensibus, manoscritto 1720
16) DI FABIO 1989, pp. 1 – 44.
17) La traduzione non è letterale in quanto sotto la parola has si vuole comprendere l’aquila e la volpe.
18) CASTAGNA 1970, pp. 171 – 172

BIBLIOGRAFIA

MANOSCRITTI

Secolo XVIII
ACCINELLI FRANCESCO MARIA, Compendio delle Istorie Genovesi, TOMO 3 ad annum 1096.
PIAGGIO DOMENICO, Epitaphia, sepulcra et iscriptiones cum stemmatibus, marmorea et lapidea existentia in ecclesibus Genuensibus, manoscritto 1720.

OPERE A STAMPA

1863
CAFFARO, Annales Januae, a. 1099 – 1204, edizione G. E. Perez in Monum. Germa. Hist., TOMO XVIII, Hannover 1863 (pp. 196, 203, 211, 212).
1903
BOSCASSI ANGELO, Illustrazione storico dello Stemma di Genova, Genova 1903.
1961
BASCAPE’ GIACOMO, Sigilli Medievali di Genova in Bollettino Ligustico, Genova 1961.
1970
CASTAGNA DOMENICO, Nuova guida storico-artistica di Genova, Genova 1970.
1975
CHARBONNEAU-LASSAY LOUIS, Le Bestiaire, Milano 1975 (edizione originale Paris 1940).
1979
FOSSATI SEVERINO – GARDINI ALEXANDRE, Archeologia in Liguria – Genova, San Silvestro, Genova 1979.
1981
PAVONI ROMEO, I simboli di Genova dalle origini del Comune, Genova 1981.
1989
DI FABIO CLARA, La scultura bronzea a Genova nel Medioevo e il programma decorativo della Cattedrale nel primo Trecento in Bollettino d’arte, serie VI, LXXVI, Genova 1989.
2003
DE NEGRI TEOFILO OSSIAN, Storia di Genova, edizione Giunti.

mercoledì 16 gennaio 2019

LA PESCA ALLA FOCE


Severino Fossati
   La maggior parte degli abitanti del Borgo della Foce viveva prevalentemente di pesca.
   Il lavoro nel “cantiere navale della Foce”, a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento, era ormai meccanizzato e lo sarà ancora di più con la gestione Odero che elettrificò gli impianti, sostituendo la forza motrice del vapore: quindi gli operai erano degli specializzati, abitanti alla Foce, ma nei nuovi edifici di via della Libertà e nel “Casone” del Borgo del Rivale che chiudeva a ponente la piazza del Popolo. Solo qualche manovale poteva essere assunto per brevi periodi, qualora fosse divenuto necessario.
   D’altronde quello del pescatore era ed è tuttora un lavoro da specialista, eseguito da professionisti. Alla Foce probabilmente c’era qualche carpentiere, se non proprio maestro d’ascia, capace di riparare e costruire le barche. Chi ne aveva la possibilità, allevava qualche gallina o coltivava un piccolo orto posto a monte, dietro le case: serviva ad integrare l’attività principale che era la pesca. Esisteva pure una classe di contadini, distribuita nelle case sparse nella piana, quindi non viveva nel Borgo: erano i noti produttori di frutta e verdure che hanno dato poi il nome ai venditori di tali prodotti (Besagnin). L’ultima famiglia che alla Foce produsse verdura, coltivava tra la via Lavinia e via Cesare Battisti e in quest’ultima via, la domenica, vendeva i suoi prodotti a chi usciva dalla Santa Messa, officiata nella palestra della scuola Diaz a causa della distruzione (avvenuta nella seconda Guerra Mondiale) della chiesa dei SS. Pietro e Bernardo.
   La pesca era organizzata dal padrone della barca principale, che possedeva anche tutte le attrezzature necessarie, reti, lumi e verricello per trarre in secco la barca. Il padrone era il capo pescatore, e quindi stabiliva la partenza, andando a chiamare gli altri: andava di persona sotto casa anche di notte e chiamava l’interessato per nome. La paga dipendeva dalla pesca: il pescato veniva venduto e quindi il ricavato diviso in sette parti, di cui tre spettavano al padrone per gli attrezzi; la rimanenza veniva divisa fra gli altri. Se gli attrezzi erano pochi, le parti del padrone erano solo due. Una battuta di pesca poteva richiedere numerose persone: con la lampara serviva una decina di persone, di cui almeno quattro sulla barca madre, compreso il padrone e quattro o cinque singolarmente sulle altre piccole barche con i lumi. Quando non esisteva ancora il motore, andando a remi, sulla barca madre erano almeno sei.
   Il pesce veniva venduto alla Foce, in loco, ma anche all’interno, verso Borgo Pila e San Fruttuoso. In città ne andava poco: solo attraverso conoscenze personali con qualche pescheria, perché a Genova queste non erano numerose, e le poche erano in Sottoripa. Probabilmente c’era anche il problema del dazio che era da pagare entrando in città, forse più elevato rispetto a quello dei comuni limitrofi.
   La pesca professionale si svolgeva da febbraio a settembre; da ottobre a gennaio era tutto fermo, salvo le iniziative personali con una barca singola. Già a gennaio, ma soprattutto a febbraio, si pescava la “fritturina”. Dalla metà di febbraio fino ad aprile si pescavano i “bianchetti” che rappresentavano la pesca più remunerativa. Dopo aprile, fine a settembre, si pescavano le “acciughe”. Naturalmente, saltuariamente capitava qualche altro pesce anche pregiato, “triglie” e i “rossetti” che però già negli anni Trenta del secolo scorso erano ormai assenti dalle acque delle zone raggiungibili dai pescatori della Foce: per trovarne era necessario andare nelle acque oltre Sestri Levante. Venivano presi anche polpi, ma facevano parte di un’attività di tipo sportiva, anche se poi il polpo veniva venduto.
   I tipi di rete usati erano quelli noti, soprattutto quattro: la “Lampara”, la “Menaide” (o Manate), il “Tremaglio” e la “Sciabica” (o Rastellu). La “Lampara” è un tipo a strascico, lunga 230 metri, alta 15 braccia1 e raggiunge il fondo. Sul suo fondo vi sono degli anelli che permettono lo scorrere di un cavo che serve per il recupero e la raccolta del pesce. Si cala in una zona pianeggiante a profondità uniforme di circa 14 braccia: di queste zone ne esistono varie a levante di Capo Santa Chiara, tra capo e capo. Dopo aver ammucchiato il pesce con i lumi delle piccole barche che inizialmente sono disposte in cerchio con la madre a distanza di 30 o 50 metri, la circonda calando la rete che viene poi chiusa agendo sulla sagola2 che scorre negli anelli sul fondo della rete.
   Anche la Manate era usata per le acciughe e le sardine: è a maglie molto fitte e si calava perpendicolarmente alla corrente, disposta verticalmente. Si usava unendo tre pezzi da 100 metri, tenuta un braccio (circa due metri) sott’acqua con sugheri cui era legata una sagola di due metri. I sugheri erano posti ogni 5 braccia. La rete era recuperata da poppa della barca e lo faceva un solo uomo che riceveva spesso il cambio essendo un lavoro faticoso. Gli altri nel frattempo recuperavano il pesce uno alla volta togliendolo dalla maglia della rete.
   Analoga alla Manate è il “Tremaglio”, costituito da tre reti, di cui le due esterne hanno le maglie da 15 centimetri, mentre l’interna le ha da 3 centimetri. I sugheri sono posti ogni mezzo metro in alto. Mentre in basso vi sono i piombi, ogni 20 centimetri, pesanti 30-50 grammi. Era usabile da un solo uomo: si lasciava in mare da 8 a 12 ore, specie la notte e raccoglieva tutto, anche pesci grossi, attratti dai pesci piccoli già nella rete piccola e quindi presi a loro volta nella rete a maglie grandi.
   La “Sciabica” veniva usata per la frittura e per bianchetti. Veniva calata da una barca partendo da terra dove veniva lasciata in custodia l’estremità di un cavo; la barca si allontanava calando la rete fino al sacco (Manega) a maglie fittissime. Quindi la barca tornava a terra con l’estremità dell’altra cima3, non molto distante da dove era stata lasciata la prima. A questo punto si iniziava a tirare le due cime avvicinando le due estremità: all’operazione prendevano parte dei volontari presenti sulla spiaggia, disoccupati sfaccendati ed ubriaconi che nello sforzo a volte cadevano e si conquistavano il nome di “Straccioni da sciabica”4.
   Esisteva una sciabica piccola, detto Rastellin5 che veniva utilizzato con le stesse modalità ma lontano dalla riva, da due persone su una barca, traversata6 e tenuta con un ancorotto7 dal bordo opposto. Terminata la pesca, le reti venivano fatte asciugare, possibilmente stendendole sulle pietre della spiaggia (a).     
   Nel periodo in cui la spiaggia era molto ridotta (prima degli anni Sessanta del secolo scorso), venivano stese anche sul marciapiede di corso Italia, ma sulle pietre asciugavano meglio perché l’aria circolava tra le pietre. Il loro trasporto veniva fatto con una carretta o, parlando del passato, con una portantina (Scaletta) fatta da due assi con quattro o cinque traverse. Periodicamente le reti venivano fatte bollire in acqua dolce con cabraccio8 e scorza di pino macinata che le tingeva e le liberava dalle muffe. Quest’operazione veniva svolta sulla spiaggia con un calderone posto su un fuoco: più recentemente, usando le reti di nylon, tale azione non era più necessaria. In passato era usato il cotone, ma nel caso delle corde si usavano altre fibre: per i cavi da recuperare manualmente si è usata per secoli la lisca (Ampelodesmos Mauritanicus), perché fornisce una corda molto morbida.
   I lumi erano ad elettricità, funzionando con piccoli gruppi elettrogeni: in passato erano lampade ad acetilene, fornita di carburo. L’attrezzatura per la pesca era tenuta in magazzini posti sotto casa (Masanghin) ove talvolta erano presenti anche animali da cortile. Dopo le prime demolizioni del Borgo (fine Ottocento) per l’apertura di via Casaregis, i magazzini furono sistemati nei locali negozio di via Cravero (palazzo d’angolo con via Morini).
   Le barche erano di forma che oggi è scomparsa: il “dritto di prora” e il “dritto di poppa”, se non c’era il motore, erano a rientrare. Questo tipo era diffuso in tutta la Liguria ai primi del Novecento, come si vede nelle fotografie dell’epoca. Quando iniziarono a comparire barche con la “prora dritta” (o prominente), furono classificate come catalane, cioè straniere (o di importazione): infatti localmente si continuava a costruire all’antica come i gozzi per le regate. Sulla barca madre a motore, si portavano quattro remi, anche se gli scalmi9 erano sei, una pompa manuale d’esaurimento, l’ancorotto e almeno un salaio per il recupero del pesce. Quando non si pescava le barche erano tratte in secco10 tramite un verricello11 azionato a mano: era in legno, ed era costruito da un falegname locale. Aveva un grosso asse verticale in olmo su cui si arrotolava il cavo di alaggio12. Veniva azionato a mano, spingendo su una lunga asta che attraversava l’asse: più uomini giravano l’asse spingendo sull’asta. Prima dell’introduzione del motore le barche andavano a remi o a vela. La vela, dalle foto d’epoca, era di tipo latino13 con un albero che poteva essere inclinato verso prua e un picco14 in cui era inserita la vela. Il picco, quando la barca era ferma o in secca, veniva calato e serviva a reggere una tenda di copertura della barca.
   Nei paesi della Riviera, più grandi del Borgo della Foce, l’attività era un po’ diversa: per esempio, i pescatori di Santa Margherita si spingevano a remi o a vela fino alle acque della Foce dormendo a bordo: portavano un fornelletto per cuocere il pesce. A Boccadasse, prima della Seconda Guerra Mondiale, il ricavato della vendita era diviso in modo diverso: una parte per gli attrezzi, una per il padrone della barca e tre da dividere tra i pescatori, ma nella buona stagione la paga poteva essere settimanale anziché di tipo compartecipativo, perché andavano a pescare fino a Framura o fino in acque francesi, rimanendo in mare vari giorni.

NOTE
(a cura di Francesco Boero)
1) L’unità di misura detta “Braccio” (in inglese Fathom) è di mm. 1829.
2) Tipo di cima di piccolo diametro.
3) Nome generico di un cavo navale. A bordo è gradito l’uso del termine “cima”; solitamente viene chiamato “corda” quel pezzo di sagola intrecciato al battaglio della campana.
4) In Genovese, singolarmente Stasson da sciàbega.
5) In Italiano “piccolo cancello”.
6) Posizionata perpendicolarmente alla direzione della corrente.
7) Ancora di piccole dimensioni e talvolta di particolare fattura.
8) Il termine usato dall’autore non si capisce che tipo di sostanza sia.
9) Pezzo di ferro o di legno robusto che infilato in un foro nel bordo della barca serve con l’ausilio di un anello di corda (stroppo) ad azionare il remo.
10) Azione che porta la barca fuori dall’acqua: normalmente si dice “alaggio”.
11) Verricello: meccanismo costituito da un tamburo, girante intorno ad un asse orizzontale, sul quale si avvolge il cavo. Argano: stesso meccanismo, ma ad asse verticale.
12) Cavo che serve per tirare in secco la barca tramite il verricello e l’argano.
13) Vela latina: vela triangolare. Vela aurica: vela trapezoidale.
14) Pennone superiore che regge la vela e che normalmente è libero di scorrere su l’albero.


(a cura di Rosa Elisa Giangoia)
a) dalla tecnica di produzione con filato e nodi delle reti da pesca è derivato il lavoro femminile del pizzo a filet con il modano: http://www.fioretombolo.net/filet.htm. Questa tecnica è oggi caduta in disuso, sostituita da quella con l'uncinetto.






Un leudo sulla spiaggia della Foce

 








martedì 8 gennaio 2019

DALLA FOCE ALL'AMERICA DEL SUD


Marco Solari, il nonno di mio nonno

Scritto da  Fernando Coronato

La storia orale della famiglia Solari che è arrivata fino a me, diceva che mio bisnonno, Bartolomeo Solari figlio di Marco- era capitano di una nave che affondò nel Rio della Plata con tanta buona fortuna che toccò il letto del fiume e Bartolomeo rimase tre giorni in cima all'albero fino al salvataggio. Sono in possesso del cannocchiale che (dicono) lui avesse usato (usasse) in quell'occasione. La storia della famiglia non dice nulla sull'equipaggio.
Molti anni dopo, per bocca di un altro pronipote di Bartolomeo, ho appreso la versione che il legno era stato così vicino alla riva che potrebbe essere raggiunto a piedi con la bassa marea ma in realtà il capitano era stato tre giorni a bordo per evitare che saccheggiassero la nave.
La storia raccontava che Bartolomeo era capitano di una delle navi di suo padre e che altri due figli comandavano altre due navi. Ognuno di loro era occupato in una linea di navigazione, che assumeremo, sarebbero: il Sud America, il Nord America ed il Mediterraneo orientale, sempre molto frequentato dai genovesi.
Per cominciar a districare la realtà del mito, devo dire che Marco Solari non ebbe tre figli, ma due, Bartolomeo (nato nel 1862) ed Ernesto, tre anni più vecchio. C'erano anche due sorelle maggiori, Giuseppina (1854) e Costantina (1858). Quest'ultima rimase nubile e senza figli, ma invece Giuseppina si era sposata con un capitano di mare, Gerolamo Brilla, di Savona. Forse il genero di Marco era il terzo figlio che comandava le navi secondo la tradizione di famiglia.
Le informazioni di base per questo lavoro provengono dallo Schema per ricerca discendenza Solari, un albero genealogico con molti nomi ma senza data alcuna; l’albero comprende 4 generazioni (dal padre di Marco ai suoi nipoti, vedi Fig.1). Lo schema circolò in famiglia dagli anni '60, portato dall'Italia da qualche Solari della generazione dei miei genitori. Avere queste informazioni in un momento in cui i viaggi in Europa non erano frequenti e non esistevano archivi online è stato molto prezioso. Tutto ciò che si sapeva di Marco fino dall'inizio di questa indagine erano i nomi dei suoi genitori, sua moglie, Zita Vignale ed i loro figli. Tutto ciò che segue sono delle nuove informazioni, che riporto qui in modo che possano circolare tra i discendenti.
Marco Solari nacque il 30 settembre 1823 alla Foce, a quel tempo un sobborgo marittimo adiacente a Genova ad est, separato dalla cinta muraria del torrente Bisagno (vedi Fig. 2). Era il figlio di Giovanni Battista Solari e Saveria Preve. Doveva essere rimasto orfano di madre piuttosto giovane, perché Giobatta si risposò con Maddalena Preve, forse un caso di sororato, abbastanza comune allora. I fratelli di Marco furono Alberto (n. 1816) Tomaso (n. 1821) e Maria. Aveva anche due fratellastri, Marina e Luigi, quest’ ultimo 15 anni più giovane.
La Foce del Bisagno era a quel tempo un borgo con vocazione navale che non superava i mille abitanti. Nel censimento napoleonico del 1806 c’erano 148 uomini di età legale, tra cui Giovanni Battista Solari, suo fratello Antonio e il loro padre, Paolo, nonno di Marco. Compare anche il nonno materno di Marco, Giobatta Preve, che appare come "patrono di nave".
Secondo altre fonti genealogiche di Internet, Paolo Solari si sposò nel novembre del 1784 con Angela Frixone, con cui ebbe diversi figli - ma soltanto sappiamo i nomi dei maschi: Giobatta (1786), Marco (1790), Tommaso  (1793) , Giuseppe (1798), Pasquale (1801), Antonio ... Non conosciamo l'anno della nascita di Antonio, ma dal momento che solo lui e Giobatta compaiono nel censimento del 1806, possiamo supporre che fossero gli unici "adulti".
In quel censimento compaiono solo 4 maschi Solari nella Foce: un certo Giacomo-figlio-di-Carlo (che non sembra essere correlato) appare come "marinaio". Paolo Solari appare come "négociant", come suo figlio Antonio, ma Giovanni Battista (Giobatta, per usare la terminologia comune) figura come "venditore". Forse Paolo risponde "alla tipica figura del marittimo ligure, che all'età di dodici anni circa, quando in genere avveniva il primo imbarco come mozzo, accumulava denari per poter diventare patrone marittimo, successivamente capitano di nave e alla fine della vita ricco négociant, grazie agli investimenti effettuati nello stesso mondo dello shipping "(Lo Basso, 2016, p.101) [1]
In ogni caso, L. Gatti (2016, p.120) [2]  fornisce alcune informazioni su di loro:
“ Il patron Paolo della Foce nel 1779 noleggia il proprio leudo ‘Immacolata Concezione’ per caricare vino a Ceuta, mentre il suo probabile figlio, cap. Gio Battista di Paolo, nel 1816 commissiona al maestro Guglielmo De Barbieri, a Prà, un Brigantino da circa 2000 mine (190 t) per cui prevede di spendere circa 34.000 lire; un cap. Gio Battista della Foce nel 1810 comanda uno sciabecco che trasporta sale".
D'altra parte, nel Registro della Salute presso l'Archivio di Stato di Genova, negli anni 1839 e 1840 c’è un Giobatta Solari patrone dello sciabecco Nostra Signora della Salute, con il quale in quel periodo fa nove viaggi da Genova a La Spezia e tre a Livorno. Per lo stesso anno un altro Giobatta Solari, omonimo e coetaneo, capitano di La Giustizia, barca a vela con cui trasporta degli emigrati a Buenos Aires. Per un attimo ho pensato che potrebbe essere il padre di Marco, ma ben presto mi sono accorto che non era così poichè quest'ultimo capitano era nativo di Zoagli, paese abbastanza lontano dalla Foce. Quindi non era un antenato.
La verità è che i quattro figli di Giobatta identificati finora, cioè Alberto, Tommaso, Marco e Luigi erano capitani di mare. Tutto indica che anche i suoi due generi, Dodero e Stefano Oberti. Non sono sicuro di quale tra tutti  i marittimi Dodero d’Albaro era il marito di Maria Solari. Con Oberti, tuttavia, non c'è dubbio, poichè appare nell’elenco dei capitani genovesi nel 1873[3]. Quindi, con un navigatore, Giobatta, sono collegati sei altri navigatori, i suoi figli carnali o politici; tutto un piccolo clan familiare all'interno del profuso mondo marittimo genovese del secolo XIX.
Tutto ciò indica pertanto che la vocazione marinara Marco l’ha presa dal padre, forse dai suoi due nonni ed, eventualmente, oltre. Il registro più antico della sua attività marittima che ho potuto trovare finora è un ruolo dell'equipaggio del 1841. In esso, Marco, 18 anni, dalla Foce, appare come secondo in comando del brigantino Marianna, varato a Cornigliano nel 1827, armato con due cannoni, e destinato al "grande cabotaggio" (ossia la navigazione nel Mediterraneo e nell’Europa Atlantica). In questo documento si legge che i suoi capelli erano marroni ed era alto 1,58 m [4]. La nave era di proprietà di Nicolò Dodero.
Il capitano del Marianna era Giuseppe Vincenzo Dodero, 48 anni, originario di Albaro, e nell’equipaggio c’era un altro Giuseppe Dodero, anche lui di Albaro,  undici anni più giovane. Forse questo legame con i Dodero avrebbe poi portato al matrimonio di qualcuno di quella famiglia con Maria Solari, sorella di Marco. Comunque, bisogna chiarire che La Foce e Albaro erano dei borghi attigui e che probabilmente le famiglie erano legate da sempre.
È ovvio che la navigazione nel Marianna, di oltre 6 mesi di durata, non è stata la prima di Marco e  che, nonostante fosse più giovane di molti altri, occupava il secondo posto. Tuttavia, il suo stipendio (32 lire) non era secondo dopo quello  del capitano (100 lire); altri guadagnavano un po' di più di lui; forse perché era il più giovane, Marco non guadagnava così tanto.
Prima di andare oltre, è tempo di avvertire della ripetizione degli stessi nomi nelle generazioni successive. Abbiamo già parlato di due Marco e di due Tommaso, fratelli tra loro; il primo paio è della generazione 1790 ed il secondo di quella di 1820. Occorre camminare con molta precauzione per evitare passi falsi in questi rami fragili dell'albero genealogico. Il secondo Marco (nato nel 1823), è il personaggio centrale di questa storia. Suo fratello Tommaso Paolo (1821) non è stato incluso nello schema originale (Fig.1), ma il suo atto di morte (1889, pubblicato nel database dello Stato Civile Italiano) non lascia dubbi sulla sua filiazione poiché è figlio di Giobatta Solari e Saveria Preve. Da ricordare anche la tradizione  (il costume), o quasi il mandato, che i figli portassero i nomi dei nonni. Se da un lato questo è fuorviante, dall'altro può aiutare a dedurre la filiazione di una persona.
Finora non ho potuto trovare altri documenti che permettano di tracciare la carriera di Marco, ma  c’è una chiara indicazione nella L.Gatti (2014, p.477)[5]:
SOLARI Marco, nato a Genova attorno al 1823, nel 1862 comanda il Brigantino ‘Due Fratelli’, t 259, con 10 marinai e 3 passeggeri, che porta carbon fossile da Hartlepool (part. 19.9, arrivo a Genova 30.10).
In coincidenza col dato qui sopra, che mostra  Marco mentre sta andando in Inghilterra,  ci sono sui giornali britannici alcune menzioni di navi comandate dai Solari che attraccavano al porto di Cardiff negli stessi anni. Potrebbe esserci Marco, ma più tardi potrebbe anche esserci suo fratello Luigi, o un cugino di entrambi. Così, ad esempio, alla fine del maggio 1856 un Solari attracca il San Marco (231 ton) a Cardiff, e, allo stesso tempo, un altro Solari (necessariamente diverso) comanda la Mongiardino da Cardiff a Genova, dove arriva il 24 giugno[6]. Nel 1860 ci sono tre registri di Solari, uno di loro al comando dell’ Augusta (438 ton) da Alicante nel mese di giugno, un altro col San Luigi (174 ton) nel mese di agosto e il terzo col Demostene (230 ton) nel mese di novembre[7]. È interessante notare che tutti questi legni navigavano con bandiera sarda, dato che l'Italia si sarebbe unificata soltanto l'anno successivo.
Ancora un Solari riappare nel marzo 1866 al comando del Felice, ormai con bandiera italiana- e nel novembre 1867 al  comando del  Zita. Quest'ultimo dato è particolarmente importante per me poichè io sono figlio di Zita Solari e Zita (Vignale) era la moglie di Marco dal 1853 (almeno la primogenita del matrimonio, Giuseppina, è nata nel 1854).
Dobbiamo lasciare qui l’elenco dei Solari nei porti della Gran Bretagna (ce ne sono più di 30) perché vengono imposte due importanti commenti aggiuntivi.
Il primo riguarda Zita Vignale, la moglie di Marco, 14 anni più giovane di lui e figlia, è ovvio!, di un capitano di mare, Giacomo Vignale, nato alla Foce nel 1799[8]. Dei 6 Vignale elencati alla Foce nel censimento del 1806, 4 erano navigatori. Zita era abituata a navigare; nel 1846, a 9 anni, la vediamo viaggiare in Sardegna sulla nave di suo padre[9]. Poi - indirettamente, attraverso l’atto di nascita di uno dei suoi nipoti - veniamo a sapere che Zita diede alla luce la primogenita, Giuseppina (1854), sull’alto mare (mentre accompagnava Marco) o la seconda figlia, Costantina (1856), è stata chiamata così per essere nata a Costantinopoli[10]. Una donna coraggiosa deve essere stata questa Zita! Imbarcarsi all'età di 17 anni con il marito, in viaggi che duravano quasi quanto una gravidanza ... con la consegna compresa.


Il Zita era un brick- barca di poco più di 300 tonnellate di stazza , varato a Sestri P. nel 1863. Sembra che sia andato in Galles fino al 1877, non più sotto il comando di un Solari, ma di un certo Boero. In realtà nell’ elenco dei capitani e dei proprietari di navigli nel 1873, il Zita - sebbene appaia come proprietà di Marco Solari - appare già comandato da un altro capitano, uno G. Testori.
Forse non sapremo mai se Marco o Giobatta, suo padre, abbiano acquistato il Zita fiammante nel 1863 o, in caso contrario, non sapremo nemmeno il nome originale del legno. Il fatto concreto è che esso porta il nome della moglie di Marco,  ma porta anche il nome della santa patrona di un antico Santuario della Foce, Santa Zita, le cui origini risalgono al ‘400. Coloro che trascorrono  la loro vita su qualcosa di così mutevole e instabile come una nave, forse hanno il bisogno psicologico di afferrarsi a cose stabili come affetti o origini.

Nell’elenco dei capitani e proprietari di navi del 1873 già citato, Marco Solari compare anche come comproprietario di Giuseppina B, un naviglio di 643 tonnellate di stazza che condivide con suo genero, Gerolamo Brilla. Di nuovo, un uomo al comando di una nave che prende il nome di sua moglie; chissà se sarà il capitano Brilla che ha dato alla nave il nome di sua moglie, oppure Marco che gli ha dato il nome della sua primogenita?
Comunque, sappiamo in concreto che Gerolamo Brilla, di Savona, comandò il Giuseppina B nel 1873 e che sua moglie andò con lui. Il documento che segue ci fornisce maggiori dettagli su queste vite marinare:
Illmo Sign. Console di S.M. Re d’Italia in Queenstown. [11]
 L’anno del Signore 1873, il giorno 23 maggio alle ore 4 e 20 minuti a.m.  a bordo del brick-barca Giuseppina B. inscritto al compartimento marittimo di Genova, sotto il numero di matricola 2240 partito dal porto di Rangoon il giorno 11 maggio diretto per Cork o Falmouth ordini con carico di riso, trovandoci attualmente nella Lat. Di 7°06’N, Long 94°12’E Ghe . Il capitano Brilla Gerolamo d’anni 31,nativo di Savona, domiciliato ídem, al comando di detto bastimento, ho presentato al secondo di bordo Zino Guglielmo d’anni 49, nativo di Genova, domiciliato ídem il nostruorno Gaspare Paolini d’anni 40 nato in Ancona, domiciliato ídem, testimoni richiesti ed aventi le qualità dovute dalle legge. È nato un bambino di sesso mascolino di cui si è sgravata questa mattina 23 maggio alle ore 4.20 a.m. la signora Giuseppina Brilla, dell’età di anni 19, nata in mare, domiciliata in Genova, moglie del capitano Gerolamo Brilla ed ho dato al detto bambino il nome di Gio-Batta Gerolamo Marco Brilla. Su fede di che noi abbiamo steso il presente atto che è stato inscritto apprè del ruolo d’equipaggio ed è stato sottoscritto tanto dal detto capitano Gerolamo Brilla quanto dai testimoni di sopra indicati et a noi dopo averne dato lettura a loro.” [12]
Ecco un singolare atto di nascita, di cui il primo registro consolare si fece a Cork (Irlanda) il 1 ottobre 1873, passò per l'Ambasciata Italiana a Dublino il 6 ottobre,  e per il Ministero degli Affari Esteri  a Roma in novembre. Il documento ha un addendum dell'anno 1895, richiesto dallo stesso Gio-Batta Brilla, per il quale chiede che il cognome della madre, Brilla, venga corretto da quello di Solari.
Al di là delle formalità legali, questo particolare certificato ci mostra che Giuseppina, come l’aveva fatto sua madre, Zita, accompagnava  suo marito dall' altra parte del mondo e in ogni circostanza. Il figlio di Giuseppina e Gerolamo, nipote di Marco, fu registrato nel primo Consolato Italiano a cui avevano avuto accesso, 5 mesi dopo la sua nascita nel Golfo del Bengala.
I figli successivi di questo matrimonio sono nati sulla terraferma. Nel 1875 Giuseppina diede alla luce Nicoletta, e in assenza del padre (Gerolamo Brilla sarebbe indubbiamente imbarcato) è lo stesso Marco che registra la nascita di sua nipote. L'indirizzo in cui è avvenuta la nascita è Piazza Colombo n ° 26, Genova, forse era nella casa di Marco e Zita. È ragionevole pensare che, per non rimanere da sola a Savona, Giuseppina preferisse andare dai suoi genitori per avere il suo secondo figlio.

Nel 1877, due anni dopo Nicoletta nasce sua sorella Zita – chiamata come la nonna - per coincidenza lo stesso anno in cui si perde traccia della nave Zita. Non sappiamo nulla di Zita Brilla, soltanto che è rimasta nubile. I tre fratelli Brilla, figli di Giuseppina (Giobatta, Nicoletta e Zita) sarebbero gli unici nipoti italiani di Marco e Zita, dal momento che Costantina non si sposò e che i due ragazzi, Ernesto (1859) e Bartolomeo (1862) emigrarono in Argentina celibi, si sposarono lì, ed i loro figli  nacquero tutti a Buenos Aires fin dal decennio 1890.
Prima di abitare nell’ appartamento di Piazza Colombo (almeno dal 1875), Marco e la sua famiglia abitavano nello stesso quartiere, molto vicino - circa 200 m. in un palazzo posto in via Colombo n° 6, al secondo piano, appartamento 6. In realtà, Marco abitava allora dai suoi suoceri, Giacomo e Domenica Vignale, come dimostrano i censimenti del 1856 e del 1871. Marco non compare nel primo censimento, ma ci si trova Zita come "Solari". È probabile che Marco stesse navigando e, dunque Zita (ora con Giuseppina di due anni) avesse smesso  di accompagnarlo.
Nel censimento del 1871 i coniugi avevano ormai quattro figli,  il più giovane - Bartolomeo - compiva  9 anni. Nel 1875 (o forse prima), Marco e la sua famiglia si spostano in Piazza Colombo e questo indirizzo sarà quello che si trova nella Leva di Bartolomeo nel 1882, quando si  arruola all' età di 20 anni.


Piazza Colombo ha uno stile  architettonico molto particolare (una piazza quadrata, con palazzi a portici simmetrici tra loro, che si trova in diagonale in un settore ortogonale del tessuto urbano. Tutti gli edifici sono uguali e vennero costruiti verso il  1840, quando quell'area era stata appena urbanizzata.
Entrambi gli indirizzi, Piazza Colombo 26 e via Colombo 6, appaiono ancora legati alla famiglia Vignale nel 1881 e nel 1883, quindi non è facile seguire la traccia della famiglia. Nel 1881 è nato in via Colombo 6, il primogenito del cognato di Marco, cioè Francesco Vignale, di cui un secondo figlio è nato nel 1883,  però in Piazza Colombo 26. Quasi certamente c’erano altri appartamenti negli stessi palazzi,  a meno che la prima nascita non sia stata dai nonni (paterni!), e la seconda dalla zia ... . fatto  molto improbabile.
Comunque, la cosa concreta è che in entrambi i casi, Marco è stato testimone negli atti di nascita dei suoi nipoti politici. Nell’atto di nascita del secondo bambino, il 23 agosto 1883, Marco viene comparato correttamente con 59 anni; ecco l'ultimo registro della sua vita che ho potuto trovare finora. Non sappiamo quando Marco sia morto. Ho cercato (on-line) uno ad uno tutti gli atti di morte di Genova del 1896, 97 e 98 ... e mentre scrivo queste righe sono al 1899. Credo che Marco potrebbe essere morto negli ultimi anni dell’ Ottocento.

La storia della famiglia afferma che il più giovane dei figli di Marco, Bartolomeo, viaggiò con la sua famiglia da Buenos Aires a Genova quando mio nonno, Ettore, avrebbe avuto, diciamo, fra i 3 ed i 6 anni. Questo ci porta tra il 1895 e il 1898. La famiglia avrebbe viaggiato per far visita al nonno, o a causa della sua morte? Ritengo che la prima cosa sembri più logica.

Poi Marco avrebbe appreso personalmente che Bartolomeo aveva smesso di navigare dopo il naufragio del Marchino nel Rio de la Plata[13], e che ora stava iniziando l'attività di importazione di sale da Cadice, e pensava addirittura di installare un magazzino sul Riachuelo. E così, Marco avrebbe conosciuto non solo suo nipote Ettore, mio nonno, ma anche i suoi fratelli maggiori, Marco e Zita ... e il cerchio si sarebbe chiuso come si deve.





[1] Lo Basso, Luca (2016) Gente di bordo.La vita quotidiana dei marittimi genovesi nel XVIII secolo. Carocci,  Roma, 189 p.
[2] Gatti, Luciana  (2016 ) Un raggio di convenienza. Navi mercantili, construttori e proprietari in Liguria nella prima metà dell’Ottocento (ebook)  Società Ligure di Storia Patria - biblioteca digitale.
[3] Guida generale delle due Provincie di Genova e Porto Maurizio, Luigi Ticozzi Editore, Milano, 1873.
[4] La unidad que aparece en el rol son “onzas piamontesas” equivalentes a 4,28 cm (Emiliano Beri, com.pers.)  Ninguno de los 5 tripulantes listados en esa página alcanzaba 1,70 m.
[5] Gatti, Luciana  (2014) Pratica, coraggio e parsimonia. Repertorio di capitani e marittimi liguri dei secoli XVIII e XIX. Città del Silencio (ebook) Laboratorio di Storia Marittima e Navale, Università degli Studi di Genova.
[6] The Merlin and Silurian, 07-06-1856.
[7] ibid, 03-11-1860.
[8] Vignale Giacomo fu Giuseppe e fu Brigida Brignardello, compare nel censimento del 1856 come capitano marittimo nato alla Foce nel 1799; la moglie è Domenica Pinasco (ivi, 1805), il figlio Francesco vi è nato nel 1843. Nel 1845 comanda il Brigantino ‘Italiano’ che il 5.7 arriva a Genova da Galatz e il 16.11 da Odessa. Nel 1862 dichiara nascita ad Albaro, età 64 anni, e comanda il Brigantino ‘Costantino’, t 318, con 12 marinai, che porta t 480 di carbon fossile da Cardiff (part. 9.9, arrivo a Genova 14.10).(Gatti, 2014,op.cit.).
[9] CISEI, base de datos (www.ciseionline.it)
[10] Gatti, L. (2014), op.cit.
[11] Queenstown, Irlanda, hoy un barrio portuario de Cork llamado Cobh.
[12] http://dl.antenati.san.beniculturali.it/v/Archivio+di+Stato+di+Savona/Stato+civile+italiano/Savona/Nati/1893/69+Parte+3/007500048_00269.jpg.html
[13] Questo scritto comincia e finisce colla storia del  “naufragio di Nonnino” perché è la narrazione più diffusa fra i discendenti di Marco. Grazie agli apporti frammentari di alcuni dei pronipoti di Bartolomeo, solo  quest’anno - 2018 - siamo riusciti a sapere  il nome del naviglio in questione, Marchino, - 499 tonnellate di stazza, varato in Sestri P. nel 1867. Nel  1870 lo comandava lo stesso Marco, il quale comparve come proprietario del legno nell’elenco del 1873. Si arenò a Punta Lara, vicino a La Plata, nel mese di luglio del 1887.