di Benito Poggio
Fiore in to gotto Il fiore nel bicchiere
Gh’èa un çè frèido e lontan Il
cielo era freddo e lontano
de dato a-o bosco instecchio, sopra al bosco isterilito,
ma in ti ciànelli zà verdi ma sui pianori già
verdi
s’avrivan i colchici lilla; germogliavano
i fiori azzurrini;
ai pè de qualche muagetta ai
piedi di qualche muretto
spuntava a primma
viovetta. spuntava
la prima violetta.
Campann-e vegnivan a sciammi E le campane rintoccavano
da-e lontananze di monti, in
lontananza dai monti,
da-i orizonti di anni, dagli anni ormai trascorsi,
quande me paiva che o mondo allorché mi sembrava che il mondo
nasciuo o fosse con
mi. fosse
proprio nato con me.
Aegue de primmaveja Acque
primaverili
sott’a-e rammette fiorie, sotto
i rametti in fiore,
comme me paiva che alloa come
mi pareva allora
cantasci solo pe mi! che gorgogliaste soltanto per me!
Oh carovane de nuvie Oh masse di nuvole
calme ai tramonti in sce-o mà quiete nei tramonti sul mare
e contemplae dietro a-i veddri, e contemplate dietro ai vetri
quanto m’éi faeto
pensà! quanto mi avete fatto rimuginare!
Me mèue Odisseo in te l’anima: Mi muore l’Ulisse che è in me:
pe sempre cazze a mae veja: la mia vela si ammaina per sempre:
ritorno sens’ese
partio. ritorno ancor prima d’essere partito.
E òua me lascio portà Ed ora mi lascio trasportare
e navego comme in te un fjord e navigo come fossi lungo un fiordo
da l’aegua morta e profonda dove l’acqua è calma e profonda
in t’unna taera do
nord. in un lontano paese del nord.
Malinconia Malinconia,
comme ciù fito deo tempo tu distruggi le vicende del mondo
ti desfi e cose do mondo! ancor più velocemente del tempo!
Ma e primmaveje ritornan Ma le primavere fanno ritorno
e mi rinascio con lò. e anch’io rinasco con esse.
Son comme o fiore in to gotto Sono come il fiore nel bicchiere
che mentre u mèue cianin che mentre muore poco a poco
pe ogni sò che
ritorna ogni volta che c’è un po’ di sole
o se repiggia un
pittin. riprende un poco di brio.
La poesia che ho
appena citato (e da me resa in italiano senza pretese di precisione, come tutte
le altre qui riportate), fu pubblicata a Genova oltre ottant’anni fa, nel 1935,
dall’editore Emiliano degli Orfini, nella raccolta omonima ed era preceduta da
una prefazione di Eugenio Montale, il quale esprimeva, pur parco di elogi
com’era per natura, lode e apprezzamento per la felice ispirazione di Firpo,
per l’inconsueto equilibrio di espressione e per la sua particolare misura di
linguaggio. Tutti possono cogliere quell’inizio così piano e colloquiale, ma
così denso di senso poetico soggettivo (perché è il poeta che tale lo
percepisce) e nel contempo universale (perché ogni lettore e tutti noi
lo percepiamo così col poeta):
“Gh’èa un çè frèido e
lontan” C’era un cielo freddo e lontano,
cielo freddo e
lontano che, come una pesante cappa, si contrappone o meglio, si bilancia,
quaggiù, sulla terra col
sono due versi che
creano, già nella prima strofe, un’atmosfera così grigia e desolata, così
triste e madida di spleen (qui per: insoddisfazione e malessere) che fa
ancor più risaltare “i ciànelli zà
verdi, i colchici lilla”
(i
pianori verdi, i fiori azzurrini)e soprattutto “a primma viovetta” (la
prima violetta) che, timida e profumata, fa capolino tra l’erbe dei “ciànelli zà verdi” (i pianori già verdi). E la metafora
naturistica – da non ritenersi una forzatura del critico – richiama anche da un
lato l’epoca oscurantista del fascismo, e dall’altro si fa resistente speranza
di rinnovamento politico. E quanta forza culturale sta racchiusa in quella
citazione di “Odìsseo”, cioè l’Ulisse viaggiatore che osa dantescamente
l’inosabile, e che fa sprigionare nel poeta un desiderio di viaggiare, già
abortito però ancor prima di partire:
“ritorno sens’ese
partìo” son già qui di ritorno prima ancora di
essere partito.
Anche in Liguria
in rosso c’è un suggestivo richiamo nel verso che dice:
“ch’o l’a d’Ulisse a
forza” che è forte e intrepido come Ulisse.
Viene naturale, se
non accostare, ripensare anche soltanto all’ulissismo di Saba e al suo environment
provinciale. D’altronde Firpo, se pure in gran parte autodidatta e se pure,
grazie all’uso del dialetto, preservato dalle influenze dirette e dai contatti
immediati con le correnti in auge (dal Crepuscolarismo al Futurismo
e all’Ermetismo) legge, e legge molto: legge Petrarca annotato e
chiosato da Leopardi: quel Leopardi che è l’autore che su tutti Firpo predilige
e dal quale indubbiamente assorbe – è una mia convinzione personale – una certa
linea idillica e un certo lirismo malinconico uniti, consapevolmente, a una
peculiare inclinazione alla meditazione solitaria e a elementi rappresentativi
della realtà; legge, e con estrema partecipazione, la letteratura novecentesca
(e se ne colgono aliti e respiri sparsi in tutta la poesia firpiana); e legge
D’Annunzio, il cui influsso – questo sì – qui e là si coglie così come, in
certe espressioni in campo linguistico-botanico, si coglie un sapore pascoliano
e finanche gozzaniano; nella sua giovinezza, inoltre, non aveva mancato di
accostarsi a Verlaine, Rimbaud e ad altri poeti decadenti. E il tocco della “malinconia” (lo spleen, cioè
l’insoddisfazione e il malessere di tanti e tanti poeti, qui perfino addolcita
dalla pronuncia dialettale che rende ancor più lieve quella che era stata
definita ninfa gentile da Ippolito Pindemonte), quel tocco
insorgente dalla “malinconia”,
qui usata qui come parola singola, isolata a fare verso a sé stante, intacca il
tempo e la realtà, ma – per fortuna, dice il poeta – non intacca (senza
dimenticare la metafora su accennata) la primavera, stagione che, ogni volta
che ritorna, lo fa rinascere, dandogli quel “pittin” di vita, quel briciolo di ripresa vitale che il tiepido
raggio di sole primaverile riesce ancora a dare anche e perfino al fiore senza
vita perché reciso e messo lì “in to
gotto” (nel bicchiere), posato
sul tavolo o sul davanzale, non per dargli l’illusione o la sensazione di
vivere, quanto per aiutarlo (una sorta di eutanasia lirica) a morire “cianìn cianìn” (a poco a poco), un pochino alla volta, quasi senza rendersene
conto. A mio parere, se Edoardo Firpo avesse scritto anche solo quest’unica
poesia, sarebbe da considerare un grande lirico. In essa già si percepisce, e
nettamente, tutta l’emancipazione che, lentamente ma saldamente, conquisterà da
canzonette e stornellate, da filastrocche e trallaleri, ma anche dalle parlate
paesane e dai gerghi rionali. Qui, e non solo qui, il dialetto – lo si coglie
d’acchito – non è più né succubo né subalterno alla lingua: è già ricco e
temprato a dire di nuove tematiche, è già ricco e temprato al punto che
consente alla dialettalità tutta interiorizzata di Firpo di esprimere la
propria pena di vivere e l’altrui faticosa esistenza. Edoardo
Firpo, com’è noto, nasce a Genova, in Piazza Colombo al n° 26 (e, se non ricordo male, c’è una targa che lo commemora) il 20 aprile 1889 (un anno dopo, ad esempio, di Giuseppe Ungaretti e Thomas Stearns Eliot) da una famiglia della modesta borghesia e conduce una vita altrettanto modesta dedicandosi al mestiere poco redditizio (lo sosteneva lui a ragione giacché visse sempre in disagiate condizioni), cioè il mestiere di accordatore che eredita dal padre. E del resto, né poetare (“carmina non dant panem”) né accordare pianoforti delle scuole comunali genovesi poterono farlo vivere nel benessere. Ma Firpo ha, in qualche misura, la musica nei suoi lombi: egli è il pronipote in via materna (la madre si chiamava Gemma Arata, il padre anch’egli Edoardo) del famoso violinista Camillo Sivori (al quale Nicolò Paganini consentì venisse fatto dono della copia del suo “Guarnerius” effettuata dal liutaio Vuillaume e custodita dal Comune di Genova, al quale lo stesso Sivori lo donò); e, grazie alla (o in forza della) sua sensibilità, Firpo riuscirà a sentire perfino la musica dell’erba, come scrive nei tre versi finali di Idillio:
Firpo, com’è noto, nasce a Genova, in Piazza Colombo al n° 26 (e, se non ricordo male, c’è una targa che lo commemora) il 20 aprile 1889 (un anno dopo, ad esempio, di Giuseppe Ungaretti e Thomas Stearns Eliot) da una famiglia della modesta borghesia e conduce una vita altrettanto modesta dedicandosi al mestiere poco redditizio (lo sosteneva lui a ragione giacché visse sempre in disagiate condizioni), cioè il mestiere di accordatore che eredita dal padre. E del resto, né poetare (“carmina non dant panem”) né accordare pianoforti delle scuole comunali genovesi poterono farlo vivere nel benessere. Ma Firpo ha, in qualche misura, la musica nei suoi lombi: egli è il pronipote in via materna (la madre si chiamava Gemma Arata, il padre anch’egli Edoardo) del famoso violinista Camillo Sivori (al quale Nicolò Paganini consentì venisse fatto dono della copia del suo “Guarnerius” effettuata dal liutaio Vuillaume e custodita dal Comune di Genova, al quale lo stesso Sivori lo donò); e, grazie alla (o in forza della) sua sensibilità, Firpo riuscirà a sentire perfino la musica dell’erba, come scrive nei tre versi finali di Idillio:
“...mentre da l’erba
vegne un son sotti, ...mentre dall’erba si leva un suono flebile,
a muxica che sento a
l’è tanto ata la
musica che sento è così sonoramente alta
che no çerco ciù
ninte intorno a mi...” che
non cerco più nulla tutt’intorno a me...
E nei Diari,
siamo nel 1939, annota:
“Hai abbastanza
musica nell’anima
perché tu possa
chiedere dov’è la primavera?”
e poco sotto musica
e colori insieme, sentite:
“Due notte Due semplici note
o seren do çè l’azzurro del
cielo sereno
e o verde de l’erbe.” e il tenero verde dell’erba.
Fin da giovane si
dedica altresì alla pittura (come pastellista dilettante; non si
dimentichi che Firpo aveva frequentato l’Accademia Ligustica di Belle Arti), si
dedica al teatro (scrive alcune commedie in dialetto rimaste inedite,
una sola – Fèua de scheuggi – viene rappresentata nel 1922 a Genova, al teatro del
“Giardino d’Italia”. (1922: annus mirabilis per la letteratura, annus
horribilis per la politica italiana!). A posteriori, l’8 ottobre 1954,
Firpo annoterà nei Diari: “Ho esperimentato, in venti anni di
fascismo, quanto una semplice idea di verità e di giustizia, sia più dura a
difendersi che tutto un sistema filosofico”; ma Firpo, durante il
ventennio, si dedicherà soprattutto alla poesia in dialetto. Ed ecco in
proposito il Firpo-pensiero: “Scrivo in dialetto perché è il mio mezzo
espressivo più congeniale, perché sento in lingua genovese – In ra lamgua zeneize –, perché le pietre,
le torri, il mare, il vento tra i pini mi parlano in genovese”. Nel
1906, a
diciassette anni, dopo un corso di studio alquanto stentato e faticoso, era
pervenuto alla “Licenza tecnica” presso la Regia Scuola “G.
Baliano”, ottenendo la votazione, tutto sommato discreta, di 81/120. Non
molti, amante della solitudine qual era, gli amici fidati della sua vita; tra
essi ricordo Giovanni e Guido Sechi (tradurranno in lingua italiana le sue
poesie dialettali), Adelchi Baratono (di cui seguirà un corso di Filosofia
dell’arte), l’uomo di lettere e combattente nella Resistenza Mario Zino (ch’io
conobbi come docente di Lettere al Liceo Classico “Calasanzio” di Cornigliano),
i pittori Gagliardo (Helios e Salvatore) e Lombardo (Luciano, Pietro e
Riccardo), gli xilografi Mimmo Guelfi e Carlo Ferrari, l’avvocato C.M. Brunetti
e l’uomo politico Domingo Solari; e dopo la guerra 1915-’18 stringerà amicizia
con Ivo Rubini, fondatore del Circolo Culturale “All’insegna della Tarasca” di cui Firpo fece parte e che
pubblicherà ‘O grillo cantadò.
Ha l’opportunità di fare la conoscenza di Guido Gozzano durante il suo soggiorno a Genova dal 1907 al 1914; e in seguito anche di Camillo Sbarbaro e di Eugenio Montale. Tra disagi e ristrettezze, proprio com’era vissuto, Firpo morì la sera del 10 febbraio 1957 all’Ospedale di San Martino ove si trovava ricoverato dai primi del mese per apoplessia. Firpo riposa nel cimitero di Sant’Ilario, proprio vicino ad uno dei suoi rari ma cari amici, quell’Adelchi Baratono filosofo e docente di filosofia teoretica all’Università di Genova e deputato per il Partito Socialista, del quale, come detto, Firpo aveva seguito un corso di Filosofia dell’arte: nel 1946, un anno prima della sua morte, Baratono pubblicò il libro Arte e poesia, amato da Firpo e che fu da lui letteralmente divorato. Quando Firpo morì, teneva gelosamente con sé Rerum Vulgarium Fragmenta ovverosia, le Rime (sparse) di Francesco Petrarca. Fu religioso? Fu ateo? Certamente, e lo si legge in Ciammime un po unna mattin, visse nel costante antigo dubbio tra fede e ateismo:
Ha l’opportunità di fare la conoscenza di Guido Gozzano durante il suo soggiorno a Genova dal 1907 al 1914; e in seguito anche di Camillo Sbarbaro e di Eugenio Montale. Tra disagi e ristrettezze, proprio com’era vissuto, Firpo morì la sera del 10 febbraio 1957 all’Ospedale di San Martino ove si trovava ricoverato dai primi del mese per apoplessia. Firpo riposa nel cimitero di Sant’Ilario, proprio vicino ad uno dei suoi rari ma cari amici, quell’Adelchi Baratono filosofo e docente di filosofia teoretica all’Università di Genova e deputato per il Partito Socialista, del quale, come detto, Firpo aveva seguito un corso di Filosofia dell’arte: nel 1946, un anno prima della sua morte, Baratono pubblicò il libro Arte e poesia, amato da Firpo e che fu da lui letteralmente divorato. Quando Firpo morì, teneva gelosamente con sé Rerum Vulgarium Fragmenta ovverosia, le Rime (sparse) di Francesco Petrarca. Fu religioso? Fu ateo? Certamente, e lo si legge in Ciammime un po unna mattin, visse nel costante antigo dubbio tra fede e ateismo:
“saià proprio veo che
un giorno ma
è proprio verità che un bel giorno
s’asmortià tutto pe
mi?” tutto
non avrà più vita e si spegnerà per me?
Dubbio che si fa vera
e propria angoscia interiore in Ai martiri di Cravasco, là dove il poeta
si interroga:
“Perché in te grandi
ingiustizie Perché
quando si compiono grandi ingiustizie
Dio o l’è sempre
lontan?” Dio è sempre assente e così lontano?
che non può non
richiamare l’interrogativo di Primo Levi che si chiedeva “Dov’era Dio ad
Auschwitz?” Al suo funerale sarà il sindaco di Genova, Gelasio Adamoli, a
pronunciare l’orazione funebre. Sul piano politico Firpo s’era accostato, forse
anche per influsso del Baratono, all’ideologia socialista, prese a collaborare
all’edizione ligure dell’Unità e finì per iscriversi al P.C.I. presso la
sezione “Tito Nischio” (in Corso Torino, 56) de-a Foxe, quartiere da lui
più volte dipinto con un certo rimpianto per la Genova che lui cantava: la Genova della memoria antica
e della sua infanzia:
“donne foxanne donne della Foce
sempre desbandellae” sempre scollacciate.
Firpo, o poeta de-a Foxe, parla direttamente del suo quartiere e descrive
in musicali versi realistici le bande di allegri monelli della Foce, male in
arnese e coi capelli arruffati, nella lunga composizione “A festa de San Giambattista” (La festa di S. Giovanni Battista) allegata
in chiusura nella traduzione di Carlo Cormagi, ma di cui riporto qui, tradotte
da me, solo alcune strofe frizzanti e cariche di insolita vivacità e
sentimentale rimpianto per la bella età infantile:
“Ancon me pâ de veddive “Mi pare di vedervi ancora
belli figgêu da Foxe, bei monelli della Foce,
chêutti, rostii da-o sô, abbronzati e arrostiti dal sole,
a strêuppe, mezi nui, in bande, mezzi nudi,
tutti desbandelae. tutti male in arnese,
coa testa asberuffâ, coi capelli arruffati,
quande sott’ai barcoin quando sotto le finestre
ve metteivi a cantâ… cantavate a squarciagola…
… …
Belli figgêu da Foxe Bei monelli della Foce
a m’è restâ in te l’anima m’è rimasta in fondo all’anima
a vostra fresca voxe!... la vostra voce fresca e squillante!...
E quando Firpo si dedica alla poesia – quella dialettale, ma
non solo – siamo, come ricordato, nell’ora buia del Fascismo e il Min.Cul.Pop.
si mostra ostile nei confronti del dialetto, inteso come elemento inquinante
dell’italianità e della purezza della razza; ed è anche l’epoca dei movimenti
opposti e contrapposti del tradizionalista e rural-paesano “Strapaese” (attorno
a “Il selvaggio”, 1926-’43, diretto da Mino Maccari e a “L’Italiano”, 1926-’42,
diretto da Leo Longanesi) e dell’internazionalista e modernista “Stracittà”
(attorno a “Novecento”, 1926-’29, diretto da Massimo Bontempelli). Entrando
nello specifico, il dialetto che Firpo usa e legge poeticamente,
assaporandolo, sia pure con pudore e parsimonia, nelle sue mille e mille
sfumature e nei suoi plurimi effetti coloristici, dotandolo altresì di ritmi e
musiche agili e morbide, ma non sempre facili e immediate, è ben lungi
dall’eloquio di tutti i giorni e non solo è considerato, ma è – di Franco
Fortini la definizione – “una voce agra e fine della poesia ligure del
Novecento” da leggersi “accanto a quella dei suoi conterranei poeti in
lingua”, Camillo Sbarbaro (1888-1967) ed Eugenio Montale (1896-1981) su
tutti. Come poeta dialettale è certamente il più grande in questo secolo e in
lui si concentra tutta una lunga tradizione di poesia dialettale legata alla
rude e dolcissima terra ligure che annovera, tanto per risalire nel tempo e
citare qualche nome, i trovatori Lanfranco Cigala, Percivalle Doria e Simone
Doria; nel XVI secolo Paolo Foglietta; nel XVII secolo Gian Giacomo Cavalli;
nel XVIII secolo Steva De Franchi; Martin Piaggio e Nicolò Bacigalupo nel XIX
secolo; Carlo Malinverni e Edoardo Firpo, appunto, nel XX secolo. Quel Firpo
che, come afferma lo studioso e critico Bruno Cicchetti, “non risente né
delle parlate rionali né del folclore regionale... pur attento alle sorgenti
degli étimi del genovese antico e del provenzale”. Ed è solo nel Novecento
che la poesia ligure (che nel Seicento aveva visto emergere il savonese
Gabriello Chiabrera, 1552-1638, con Odi e Anacreontiche) acquista
un’importanza veramente di primo piano nel contesto nazionale con tutta una
serie di poeti fra i quali – e ho già ricordato che Firpo li conobbe – Sbarbaro
e Montale (l’iniziatore di quella che è, chi dice impropriamente, definita
“linea ligure” sarà Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, 1871-1919; e uno dei padri
è considerato quel Mario Novaro, 1868-1944, direttore di “La Riviera Ligure ”):
questo per la poesia in lingua; per la poesia dialettale invece, come detto, è
Firpo l’erede della lunga e secolare tradizione di poesia in dialetto ligure,
ma nel nostro secolo, proprio grazie all’asprigna levigatezza dei suoi mezzi
espressivi, ne diviene l’esponente più importante e significativo. E nella sua
poesia si riscontrano i segni distintivi delle sue attività collaterali: musica e pittura; in essa è presente un forte senso di musicalità,
indubbiamente acquisito anche dal suo mestiere di accordatore; e, pur se tenui o attenuati, comunque mai vivi e
sgargianti, sono presenti sovente i colori (e proprio non la dobbiamo
dimenticare la sua attività di pittore e più propriamente di pastellista;
attività alla quale si dedicò lo stesso Montale). Accordatore di professione
s’è detto, come il padre, Firpo non sa però accordarsi al regime fascista, e
viene perseguitato per questa sua netta opposizione al fascismo fino ad essere,
nel corso dell’occupazione tedesca, incarcerato. La causa scatenante una
lettera scritta da Firpo al cugino e che viene intercettata dalla censura:
contiene male parole avverso Mussolini e commenti satirici sul nazifascismo e
sulla sua imminente caduta; è per questo che l’Ufficio Investigativo ne decreta
il fermo immediato il 10 gennaio 1945 e l’Ufficio Politico della Guardia Nazionale
Repubblicana ordina la perquisizione della sua casa proprio in via Casaregis:
messa a soqquadro, viene trovato solo il Diario: in mancanza d’altro
anche quello serve per accusarlo. Recluso nella IV Sezione del carcere di
Marassi e destinato alla deportazione, il 4 aprile 1945 subisce un duro
interrogatorio alla Casa dello Studente, sede del Comando delle SS di Genova,
trasformata in un vero e proprio luogo di tortura. Un compagno di cella, mentre
Firpo viene condotto via, gli urla dietro: “e digghe che t’e un poeta!” (chiariscilo
che sei un poeta!), convinto forse che una tale dichiarazione avrebbe
potuto evitargli guai peggiori. Invece proprio quella dichiarazione fa saltare
su tutte le furie il maresciallo delle SS che lo interrogava, che arriva a
percuoterlo violentemente. Prima di essere incarcerato nel corso
dell’occupazione tedesca, esattamente “unna
mattin de ottobre do ‘41” (una
mattina dell’ottobre del 1941) aveva composto una sorta di “pasquinata”
densa di spirito satirico antiteutonico: un invito lanciato, più che rivolto, “a-o Balilla” (a Balilla), un testo tutto da gustare:
A-o Balilla A Balilla
(unna mattin de ottobre do ‘41) (in una
mattinata dell’ottobre del 1941)
“Un amigo o m’à dito
stamattin (Un amico m’ha raccontato che proprio stamattina
che passando d’in
Ciassa Pammaton, passando da Piazza Pammatone,
o l’ha visto da gente
un po ammuggià ha visto una piccola folla di persone
accalcate
ch’a ciacciarava e a
rieiva cian cianin. che malignavano e ridevano
cautamente.
Piggiòu da-a
cuiositae o l’à domandòu Preso da curiosità, il
mio amico s’è informato
e o l’à sapùo che
appenn-a da un momento venendo
a sapere che pochi istanti prima
l’èa staeto levòu
da-o monumento dal
monumento era stato rimosso
un cartello che gh’ea
scrito coscì: un
cartello con su scritto:
- Mescite, vegni zù,
son torna chi.” -
Datti una mossa, rifatti vivo, sono di nuovo qui.)
E davvero quel verso
di chiusura che condensa ed esplicita tutto l’antifascismo e l’antinazismo, e
spinge ad una sollevazione popolare come quella di due secoli prima, racchiude
in sé la stessa forza icastica ed esortativa di “che l’inse”,
restituendo l’appropriato valore storico-semantico anche al termine
fascistizzato di “balilla”. Una sera di maggio del 1938 il nostro aveva
riportato nei suoi “Diari” una lunga riflessione che si concludeva così:
“Sarà una tragedia?
Mai come oggi mi sono
sentito così davanti all’ignoto.
Le mie previsioni
sono luttuose, mi pare di vedere un cielo rosso di rovine.
Sento il rombo di un
cataclisma.”
Presentimento poetico e profetico.
E 'O fiore in to gotto (Il fiore nel bicchiere) può essere letto
metaforicamente come il prigioniero (e lui lo era stato!) che muore un pochino
ogni giorno, che ad ogni raggio di sole che entra nella cella in cui è
prigioniero si riprende dal suo pessimismo e spera, un po’ di più ogni giorno,
nella vita, nel cambiamento del momento politico e forse nella libertà. Dice di
lui proprio Eugenio Montale: “(Firpo) fu l’interprete dell’aspetto laborioso
e fervido della sua città; il cantore temperato e medio (che non vuol dire
mediocre) di quella piccola borghesia genovese che molto ha dato senza nulla
chiedere alla patria comune e che porta nel sangue il gusto della tradizione e
l’istintiva fiducia nell’avvenire”. Lo ritengo, questo giudizio di Montale,
veritiero non solo come inquadramento dell’uomo-poeta, ma anche come giudizio
del suo sentimento poetico. S’è già detto della raccolta ’O fiore in to gotto (Il fiore nel bicchiere) del 1935: in
essa si va dalla malinconia che permea la raccolta anche se velata e non
plateale, alla precisione linguistica e, pur se fatto di particolari e di
piccole cose, specialmente all’amore, sentito e intenso, per la natura: anche
permeata in una intuibile metafora di sapore politico. Quattro anni prima, nel
1931, per le edizioni genovesi curate dagli stessi amici liberali del “Circolo della Tarasca” (di cui, già l’ho
detto, fece parte), era uscito ’O
grillo cantadò (Il grillo canterino), ove si incontrano e si
ritrovano tutti i tratti lirici appena descritti (la silloge sarà pubblicata
successivamente da Einaudi: nel 1960 la prima edizione e nel 1974 la seconda
edizione). Dal 1935, l’anno di ’O
fiore in to gotto (Il fiore nel
bicchiere), si supera il periodo
bellico e nel 1946 esce, per i tipi della Libreria Internazionale Di Stefano a
Genova, “A vea scoverta de l’America”
(La vera scoperta dell’America); nel 1954 l’editore Sciascia di
Caltanissetta pubblica, su sollecitazione di Leonardo Sciascia, “Ciammo ’o martinpescou” (Chiamo il martin
pescatore) e qui la sua parabola tocca il punto più alto di quel
sentire poetico di cui abbiamo detto, sempre – a mio avviso – sotteso da una
leggibilissima metafora di sentore anche politico com’era il suo desiderio di
libertà:
Ciammo ’o martinpescou
ch’o porte l’oa Chiamo il martin pescatore che porti l’ora
“...de belle aegue
nette “…delle belle acque pure
quande co becco
affiòu pa ch’o fraccasse quando col becco affilato pare che frantumi
un spegio de
cristallo, uno specchio di cristallo,
ma o canto
malinconico do gallo mentre il canto malinconico del gallo
in mezo a-a nèutte o
pà nel bel mezzo della notte risuona
un crio ch’o se perde
in mezo a-o mà... come un grido che si perde in mezzo al mare…
Sento posame in sce-a
lontann-a sponda Mi rivedo riposare sulla riva lontana
vixin a-o nonnu ai
giorni sensa schèua, vicino al nonno nei giorni senza scuola,
e o canto che sentivo
in lontananza e quel canto che ascoltavo da lontano
zà fin d’alloa o me
strenzeiva o chèu. già allora mi stringeva il cuore.
Chi ghe l’aveiva dito
a-o chèu piccin Chi mai aveva suggerito al mio cuoricino
che o tempo o xèua? che il tempo vola?
e chi a dubità de
l’avvegnì?... e chi deve dubitare del futuro?...
A caravella ch’a
batteiva o mà La caravella che solcava il mare
a sperava de vedde
un’atra sponda, ambiva a veder l’altra riva,
ma a chi in to tempo
navega ma per chi naviga nel tempo
ogni staggion l’è
un’onda ogni stagione rappresenta un’onda
verso o silenzio
d’unna riva morta. verso il silenzio d’una riva morta.
E mi che intanto
navego Ed io che intanto navigo
mentre che l’onda a
franze, mentre l’onda si infrange,
ciammo o martinpescòu
ch’o porte l’òa chiamo
il martin pescatore che porti l’ora
de belle aegue nette delle
belle acque pure
quande co becco
affiòu pà ch’o fraccasse quando col becco affilato
pare che frantumi
un spegio de
cristallo.” uno specchio di
cristallo.”
Firpo è poeta
semplice e naturale, quasi istintivo ed è per questo che i suoi versi non
perdono, neppure oggi ad anni di distanza, né genuinità né attualità, sia che
egli si esprima col sorriso, sia che egli esterni la sua malinconia, come ad
esempio in L’aegua ata:
L’aegua ata L’acqua
alta
“O mignin morto l’ò
cacciòu in mà “L’ho cacciato in mare il micino morto
vixin a-o ciaeo de
lunn-a; vicino al chiaro di luna;
l’ò visto destaccase
a poco a poco, l’ho visto allontanarsi poco a poco,
mettise in viaggio
verso l’aegua ata. mettersi in viaggio verso l’alto mare.
Povou mignin, me
s’astrenzeiva o chèu; Povero micino, mi si stringeva il cuore;
posou in sce un
fianco o pàiva un cavallin adagiato sul fianco sembrava un cavallino
de legno pe-i
figgèu... di legno per bambini…
in gio se
gh’aççendeiva de stellette sbrilluccicava tutt’intorno al punto
che de continuo ne
luxiva o mà… che senza sosta risplendeva il mare…
poi poi
l’ò
lasciòu solo a navegà in ta nèutte...” l’ho lasciato navigare in solitudine nella
notte…”
Attorno a quel gesto
iniziale che pare crudele – “O mignin
morto l’ò cacciòu in mà” (L’ho
cacciato in mare il micino morto) – e a quel verso centrale – “Povou mignin, me s’astrenzeiva o chèu” (Povero micino, mi si stringeva il cuore)
– è facile intuire l’amore di Firpo per gli animali e la natura; quella natura
che costituisce il suo ambiente ideale,
quello più confacente al suo desiderio di solitudine: “o mignin morto” (il micino
morto) può suonare metafora
del suo animo che, in piena solitudine, naviga nella “gibigiana”
metamorfosàtosi in
“un cavallin “un cavallino
de legno pe-i
figgèu”: di
legno per bambini…”
evidente rimpianto
dell’infanzia. E nelle sue scampagnate “foris portas” si reca quasi sempre da
solo, o meglio in compagnia di D’Annunzio (Alcyone), Montale (Ossi di
seppia), Ungaretti (Allegria di naufragi) e ancora Saba, Leopardi,
Dante e Petrarca: sono gli autori i cui libri riempiono il suo zaino al posto
del cibo che è invece ridotto al minimo. I temi della poesia firpiana sono
stati accennati; éccoli, comunque, qui riassunti:
- il ritorno gioioso
della primavera (lui le sente al plurale: “ ’e primmaveje ritornan” (le primavere ritornano) dice e
ripete, pensando anche al dopo-dittatura, in “ ’O fiore in to gotto” (Il fiore nel bicchiere); e c’è un verso nei Frammenti che
suona così:
“A primmaveja a salva
sempre o mondo”; “La primavera è sempre la salvezza del mondo”
- il calare della
malinconia e dell’età, come nelle tre poesie che leggiamo di seguito:
Novembre Novembre
“Malinconia de seje novembrinn-e “Malinconia delle serate novembrine
quande nisciun ciù passa quando non passa più nessuno
pe-e stradde
montagninn-e; per le strade di montagna
e cièuve e cièuve
lento e piove e piove lentamente
in sce-e erbe
assuppae, sulle erbe che si inzuppano,
e pà che cianze o
vento e
pare che il vento pianga
in sci avansi da
stae.” sui rimasugli dell’estate.”
Dixeiva a mae besava Diceva la mia bisavola
“Dixeiva a mae besava “La mia bisavola diceva
- rangotan d’unna
vegetta - -
vecchietta borbottona -
che i vegi èn comme
stanchi pellegrin che i vecchi sono come pellegrini affaticati
tutti diretti verso o
camposanto: diretti tutti verso il cimitero:
e ciù son vegi e ciù
ghe son vixin. e quanto più son vecchi tanto più vi son
vicini
- E mi – a dixeiva –
poi che son stravegia, - Ed io – aggiungeva – poiché sono
stravecchia,
e son tosto soti
comme unna nègia, e sono sottile quasi come un’ostia,
son zà là da-i
rastelli e tegno in man son già là vicino ai cancelli e ho in mano
l’anello, e se me
vegne de stranuà, l’anello, e se mi viene da starnutire,
daggo un streppon,
reciocca o campanin, do uno strappo, rintocca il campanile,
te me vegnan a-arvi e
me fan intra.” vengono ad aprirmi e mi fanno entrare.”
Solo unna votta ti
passi Passi solo una volta
“A zoventù a me canta “La gioventù canta per me
sempre un po ciù da
lontan, sempre più da lontano,
e, malinconica
riendo, e, ridendo malinconica,
a me saluta coa man. mi saluta con la mano.
Fin che no-a perdo de
vista Fino a che non la perdo di vista
me pa d’avèila con
mi, mi pare di averla con me,
ma un malinconico
addio ma anch’io dovrò darle
avio da daghe mi
ascì. un addio malinconico.
Comme a chi lascia de
nèutte Come chi lascia di notte
Zena partindo pe ma Genova partendo per mare
finn-a ch’o vedde a
Lanterna fino a quando intravede la Lanterna
o se pèu ancon
consola. prova ancora un po’ di conforto.
- altro tema: la
speranza in un futuro migliore e più libero attraverso il bimbo innocente che
sprizza gioia e sparge serenità contagiando chi gli sta vicino, come nei versi:
“O visto l’ommo andà
da-o sò piccin, “Ho visto il papà avvicinarsi al suo bambino
piggiàselo in te
brasse un po d’asbrio prenderlo di slancio tra le sue braccia
e crovilo de baxi in
sce-o faccin.” e coprirgli il faccino di baci.”
o come scrive nei Diari:
“Non portare la tua tristezza in
mezzo alla gente; il primo bimbo te la può ferire
col suo grido gioioso”;
- altro tema ancora:
scenette di vita vissuta, semplici ma autentiche, colte al volo (col finale
appena letto):
Consolazion Consolazione
Verso seja, pe-a
stradda, a-o vento freido Di sera, per via, col vento gelido
un organin stonòu un organetto stonato
o s’inzegnava de
sunnà da lè; ce la metteva tutta per suonare da solo;
un povòu diao
tutt’asberoffòu, un povero diavolo male in arnese
o domandava a-i pochi
che passava. chiedeva l’elemosina ai rari passanti.
E là in sce-o
carettin, E nel transitargli appresso
ho visto in to passà, ho intravisto sul carrettino
gh’èa un figgèu
piccin ch’o se demoava. che c’era un bambinello che si divertiva.
A dividde co-i atri a
vitta dua A condividere con gli altri la vita di
stenti
un povòu azenin ligòu
davanti c’era davanti un asinello che trainava
o cazzeiva d’in pè. che faticava a restare ritto in piedi.
Me son ammiòu in gio: Ho dato un’occhiata in giro:
da ’na parte i
palassi sigillae, da un lato palazzi ben chiusi,
dall’atra o panoramma
da çittae dall’altro il panorama della città
desteisa verso i
monti dov’erano già accesi i primi lampioni.
dove brillava zà i
primmi fanae. distesa verso i monti.
O visto l’ommo andà
da-o so piccin, Ho visto l’uomo avvicinarsi al suo
bambinello
piggiàselo in te
brasse un po d’asbrio prenderlo di slancio tra le braccia
e crovilo de baxi in
sce-o faccin.” e coprirgli il faccino di baci.
- e non possiamo
assolutamente non accennare al tema della bellezza del paesaggio, sovente
descritto e vissuto come un luogo dell’anima, come nella famosissima Boccadaze,
una quartina della quale è stata giustamente murata al “Belvedere Firpo”:
O Boccadàze, quande in ti se chinn-a
sciortindo da-o borboggio da çittae,
s’à l’imprescion de ritornà in ta chinn-a
o de cazze in te brasse d’unna moae.
|
Boccadàze Boccadasse
“De votte succede che
tra onda e onda Capita a volte che tra un’onda e l’altra
se stende comme
un’improvvisa calma; si formi come una bonaccia improvvisa;
deslengua e sc-ciumme
là vixin a-a sponda scioglie le schiume presso la riva
e in te l’aia
impregnà de bon arsilio e nell’aria impregnata di arsura
no
resta che un silensio un po stupio. non resta che uno stupore silenzioso.
A poco a poco sento
nasce in gìo Poco alla volta sento sorgere intorno
voxi velae, poi
sbraggi de figgèu, voci velate, poi grida di fanciulli,
chi scava in te
l’aenin, chi zèuga allèa, chi scava nell’arena, chi gioca a
nascondino,
chi travaggia a ’na barca, chi a ‘na rae; chi lavora a una barca, chi a una rete;
unna galinn-a a
crocca in sce ’na proa, una gallina si crogiola su una prua,
un’atra
a pitta l’aiga da-a scuggèa. un’altra becca le alghe sugli scogli.
Dormiggia un gatto in
meso a due bibbinn-e, Un gatto se la dormicchia tra due tacchine,
pisaggia unna
veggetta sorva a un scain; una vecchietta sonnecchia su uno scalino;
chi èuggezza da un
barcon, chi sta in sce-a porta chi occhieggia da un barcone, chi sta
sull’uscio
a gòdise l’odò do
vento maen; a inebriarsi dell’odore del vento marino;
chi tegne o chèu in
te rèuze, chi in te spinn-e, chi ha il cuore fra le rose, chi fra le
spine,
chi
in mille moddi a vitta se conforta. chi accetta comunque la vita che ha.
O Boccadàze, quande in ti se chinn-a O Boccadasse quando si scende da te
sciortindo da-o borboggio da çittae, uscendo dal trambusto cittadino,
s’à l’imprescion de ritornà in ta chinn-a si ha l’impressione di tornare nella
culla
o de cazze in te brasse d’unna moae. o di ricadere in
braccio alla mamma.
Pà che deslengue un
po l’anscia da vitta Sembra che sciolga un po’ l’ansia del vivere
sentindo comme lì
seggian fermae gustando come lì si son fermate
ne-a bella intimitae
da to marinn-a nella piacevole intimità della marina
a
paxe antiga e a to tranquillitae. la quiete antica e la tua tranquillità.
Pà che se pòse
un’improvvisa calma Pare ristare un’improvvisa calma
fra onda e onda anche
dentro a-o chèu ma non appena ti giriamo le spalle
ma appenn-a te se gia
torna e spalle ecco che pronta giunge una nuova ondata
ecco che arriva
pronta a nèuva ondà
e torna o bollezumme
in meso a-o mà.” e torna l’agitazione in mezzo al mare.”
- infine, la
considerazione, pacata e pur dolorosa, sulla vita che, come quella di o fiore
in to gotto, a poco a poco, se ne va, si consuma lentamente, pur tra
qualche repiggio, cenno di ripresa, barlume di vita nella libertà e di
respiro vitale; o quella arcinota dell’ochin che si sa destreggiare tra
le onde, in attesa – forse? – di un’era
nuova di vera libertà:
L’öchin Il gabbiano
“Ecco, pe-a fosca
marinn-a “Ecco, per la fosca marina
un’atra onda a
s’avansa; s’avanza un’altra onda,
a gonfia, a
s’adrissa, a s’inarca si gonfia, si raddrizza, si inarca
comme unna chiggia de
barca, come un chiglia di barca,
pà che a se-o vèugge
aberà. pare che voglia agitarsi.
Ma lè, tranquillo e
beato, Ma lui, tranquillo e beato,
con a caressa de ae con la leggerezza delle sue ali
o te ghe scuggia de
dato. ci scivola sopra.
Poesse fà comme
l’öchin Potessi far io come il gabbiano
pe ogni onda che
arriva e sollevarmi un pochino
arsame sempre un
pittin.” ad
ogni onda che arriva.
L’ho già ricordato,
ma intendo ripeterlo anche qui. Nel 1960, a Torino, Einaudi pubblicò ‘O grillo
cantadò (ch’era già stato pubblicato nel 1931 dal “Circolo della Tarasca”) e altre poesie a cura di vari autori
tra cui Mario Boselli (curatore nello stesso anno, a Genova, per Di Stefano
dell’antologia Poesia dialettale genovese, dal secolo XVI ad oggi) e con
una traduzione dal genovese a cura di Giovanni e Guido Sechi; nel 1974 la 2°
edizione. Sempre il sentimento lirico di Firpo racchiuso nella preziosa
conchiglia del dialetto genovese, semplice – lo ripeto – ma accurato, si snoda
sulle considerazioni che egli manifesta ed esprime in versi meditativi: e ci
dice di come ogni cosa umana sia caduca e destinata a passare (pensava anche al
Fascismo?); di come riflettere – e riflettere sul destino dell’uomo – sia
l’unica forma di saggezza; di come la gioia che consola l’uomo, egli la possa
ricercare e la possa ritrovare nelle piccole, piccolissime cose; ed ecco, siamo
nel 1923, come le elenca nei Diari:
Tutte le cose del
mondo hanno la loro storia.
Anche il più umile
filo d’erba ha la sua storia da raccontare.
Ascoltandolo si
potrebbe sentire tutte le sue vicende.
Il primo raggio di
sole.
Il brivido notturno.
La rugiada.
La canzone del
grillo.
Il profumo del fiore.
L’offerta alle
mandibole dell’insetto affamato.
La lucciola,
lanternina della notte.
Il profilo delle
formiche che hanno grandi città.
.La pioggia.
La scalata della
lumachina che voleva andare in cielo.
Il caldo.
La siccità.
La falce.
(20-9-1923)
E ancora di quanto
sia sacra ( laicamente, ma anche un po’ francescanamente) la vita, anche se per
quasi tutti gli uomini si riduce ad essere impasto di tristezza e sofferenza
più che di gioia e di allegria. Vi propongo quell’autentico capolavoro che è Ai
martiri di Cravasco: termina con l’eco potente della natura - Dio è assente
- che continua a chiamare i martiri là in ta paxe di monti:
Ai martiri di Cravasco Ai martiri di Cravasco
“Quello strazetto da
crave “Quella scorciatoia da capre
fra stecchi nùi e
spinoin fra rami secchi e cardi
che verso a çimma o
s’asbria, che s’inerpica verso la cima,
a stradda a l’è ch’àn
battùo è la strada che hanno percorso
in quella tetra
mattin. quella tragica mattina.
Cianzéivan finn-a i
rissèu; Piangevano perfino i sassi,
cianzéiva l’aegua in
to scùo piangeva l’acqua nelle tenebre
a-o fondo di
canaloìn… in fondo al precipizio…
Me
pà sentì i sò passi Mi sembra di udire i loro passi
luveghi comme un
tambuo; cupi come un tamburo;
lenti, che scùggian
indietro lenti, mentre scivolano all’indietro
co mutilòu in sce-e
spalle; col ferito sulle loro spalle;
i veddo cazze, sta
sciù... li vedo cadere, rialzarsi…
perché stan sciù se
fra poco perché si rialzano se fra breve
cazzian poi tutti
lasciù?... cadranno
tutti quanti lassù?...
Han ciammòu Dio in
aggiùtto Ad ogni battito dei loro cuori
con ogni colpo do
chèu hanno invocato l’aiuto di Dio
pe lò, pe-a sò moae,
pe-i figgèu, per sé, per le loro mamme e i loro figli
ma o fì o se faeto
ciù cùrto ma il filo di speranza s’è accorciato
e a raffega a-a fin a
l’à streppòu. e
una raffica alla fine l’ha spezzato.
Perché in te grandi
ingiustizie Perché nelle grandi tragedie
Dio o l’è sempre
lontan? Dio pare sempre così assente?
E çerco in gio ai mae
passi E cerco attorno ai miei passi
se un segno o fosse
restòu; se sia rimasto un segnale,
no gh’è che i pochi
fioretti non ci sono che i pochi fiorellini
che in sce-o sente
n’han lasciòu, che hanno lasciato sul sentiero,
poi un strassetto de
fèuggia poi un rimasuglio di foglia
secca ch’a sbatte a
unna ramma... secca che sbatte contro un ramo…
Dunque o dolore o se
perde Allora
il dolore si sperde
come da sabbia in to
vento?... come sabbia nel vento?...
Ma in ta gran paxe di
monti Ma
nella gran pace dei monti
se sente l’eco de
l’aegua si sente l’eco dell’acqua
lontan ch’a-i ciamma,
ch’a-i ciamma...” lontana che li chiama, li chiama…”
E il senso della
morte, intesa come fatto inspiegabile e incredibile (saià proprio veo),
lo sentiamo forte nelle poesie che propongo alla vostra sensibilità:
Ciammime un po unna
mattin Chiamami
un po’ un mattino
“Quande in te belle matttinn-e Quando nelle mattine serene
limpide de primmaveja e limpide di primavera
che lungo e spiagge marinn-e in cui lungo le spiagge marine
pà unna farfalla ogni veja; ogni vela sembra una farfalla,
e-o sò o l’inonda de luxe e il sole inonda di luce
l’anima o mà e-e campagne, l’anima il mare e la campagna
e pàn sospeise in te l’aia e nell’aria sembrano sospese
insemme a-e nuvie e montagne; insieme nubi e montagne;
l’antigo dubbio o me torna: mi torna il dubbio antico:
saià proprio veo che un giorno sarà proprio vero che un giorno
s’asmortià tutto pe mi? per me si spegnerà tutto?
Figgèu, che pe-e
coste di monti Fanciullo, che per le coste dei monti
ti beivi a-e fresche
vivagne, bevi alle fresche sorgenti
appenn-a fiorisce e
campagne, appena la campagna è in fiore,
ciammime un po unna
mattin. chiamami un po’ un mattino.
Chissà che da qualche
rianello Chissà che da qualche ruscelletto
da qualche ramma de
pin o da qualche rametto di pino
no te risponde un
pittin.” non ti risponda un pochino.”
Comme e onde do gran
ma... Come le
onde del grande mare...
“Unn’ondetta ch’a
corriva Una piccola onda che correva
tutt’allegra e un po
svaia bell’allegra e un po’ distratta
con sprescietta verso
a riva in tutta fretta verso la riva
per andaseghe
a-accoèga per andare a riposarsi
a no vedde quella
nescia, per non vedere quella insulsa
che in te un punto
tutto ghe remescia che si rimescola in un punto
e in ta smania do
corri e per la smania di correre
proprio là a te va a
fini!... va a sbattere proprio là!…
O l’è un schèuggio, a
se gh’infranze È uno scoglio, e lì si infrange
e a se mette fito a
cianze. e subito scoppia a piangere.
Tutti i so cristalli
fin, Tutte i suoi spruzzi lucenti,
e so perle, i
gingillin, le gocce, i ricamini,
e collann-e, i so
pendin, le collane, e gli orecchini,
i diademi, i
brassaletti, i diademi, i braccialeletti
s’arriguelan, se ne
van rotolano, se ne vanno
e deslenguan, pe
cammin e si ciolgono durante il percorso
in sci flutti
smeraldin... sui
flutti smeraldini…
Doppo le n’arriva
unn’atra Dopo la prima ne segue un’altra
e a l’incontra a
stessa fin; e va incontro alla stessa fine,
poi unn’atra,
unn’atra ancon poi un’altra, e un’altra ancora
nè diverso o l’è o
destin!... e il loro destino è lo stesso!
Coscì va l’umana
gente Tale è il destino degli uomini
comme e onde do gran
ma; simile alle onde del grande mare;
tutti andemmo a
sbatte là tutti andiamo a sbattere là
ma o motivo o no se
sa.” ma non se ne conosce la ragione.”
Raccolte da Vito Elio
Petrucci e da Cesare Viazzi, nel 1968, per Scheiwiller, Milano, esce Cigae
e nel 1972 Basigo, pubblicato a Pisa (libretti di Mal’aria). In Cigae
è la musica assordante, non più delle marce e delle fanfare delle adunate, ma
delle cicale sotto le stelle e, sì, si può tornare a cantare: la guerra è
davvero finita...
Cigae Cicale
Gran maaveggia l’è
staeta quella seja Che meraviglia è stata quella sera
che in ti olivi
impregnae do sò marin, che tra gli olivi impregnati di sole marino,
sott’a-e stelle, e
çigae àn repiggiou sotto le stelle, le cicale in ripresa
torna a cantà... riprendono a cantare…
Nel 1981 l’editore
Pirella, a cura di Michele Dolcino e illustrato da Attilio Mangini, pubblica Firpo
racconta Genova e nello stesso anno Bruno Cicchetti, critico di vaglia e
storico della Letteratura italiana, per lunghi anni Preside del Liceo Scientifico
Statale “E. Fermi” a Sampierdarena, insieme a Eligio Imarisio, saggista e
studioso della società otto-novecentesca oltre che romanziere, curano, corredata
da una ampia documentazione, La poesia dialettale genovese, edito da S.
Marco dei Giustiniani, Genova. Gli stessi autori, Cicchetti e Imarisio, per lo
stesso editore, nel 1978, avevano già dato alle stampe Tutte le poesie di
Edoardo Firpo. Anche se l’ho già rilevato, è importante notare e ribadire
con il Cicchetti che la poesia di Firpo non risente tanto del clima poetico del
suo tempo né l’influsso degli Sbarbaro e dei Montale, quanto piuttosto la sua
poesia si rifà a “moduli pascoliani e crepuscolari”, e dice sempre il
Cicchetti, “per risalire sino all’Arcadia e al Tasso”. Certo nella
poesia di Firpo non c’è l’intellettualismo vuoto, non ci sono complicazioni o
infingimenti (e lo si sentì anni fa nelle letture così partecipate di Luigi
Cornetto, anch’egli come Firpo, poeta dialettale; e lo si può sentire oggi
nelle letture filologicamente attente di Maria Vietz e di Franco Bampi), c’è
anzi linearità e immediatezza: caratteristiche che i due lettori sanno far
cogliere e sanno proporre con la loro esemplare lettura. Il dialetto, strumento
che Firpo usa al meglio e, pur con quello sparso tocco di obsoleto, domina da
par suo e come nessun altro, gli serve per suggerire ai nostri cuori e rappresentare
davanti ai nostri occhi, come scrive Elio Andriuoli, altro critico e poeta
finissimo, “il suo mondo semplice e
intenso, fatto di cose concrete e profondamente amate e, proprio per questo,
espresse con verità e senza retorica”, senza mai dimenticare, aggiungo io,
quella sottile insofferenza per la stagione politica in cui si trovò a vivere e
soffrire nella speranza di potersi librare, come poeta e soprattutto come uomo,
verso la libertà.
Conclusione
Chi legge (e Firpo
leggeva), chi pensa (e Firpo era intensamente dedito al pensare),
chi è poeta (e Firpo era poeta di tempra autentica) fa paura a chi
comanda. Ricordate nel Julius Caesar di William Shakespeare? Cassius,
proprio come il nostro Firpo, “has a lean and hungry look” (ha un
aspetto magro e famelico), “he reads much” (è tutto dedito alla lettura:
libri da leggere si portava nello zaino, invece del cibo che gli sarebbe stato
pur necessario), “he thinks too much” (non fa che pensare e riflettere:
e il suo Diario ne è la dimostrazione
palese) ed è Cesare che trae le conseguenze e conclude: “such men are
dangerous” (uomini di tal fatta costituiscono un vero pericolo, sono molto
pericolosi: la loro vera forza non è fisica, sta tutta nelle idee): tutto
questo nella seconda scena dell’atto primo; e nella terza scena dell’atto terzo
Cinna, il poeta, viene fatto a pezzi dalla folla infuriata: ha un bel dire che
lui non è cospiratore, ma solo e soltanto un poeta. A Firpo, ricordate, che
dichiarava di essere un “poeta” seguendo il consiglio di un compagno di
prigionia: “e digghe che t’e un poeta”, successe come al Cinna
scespiriano: fu maltrattato, se non torturato, e sonoramente picchiato proprio
perché era poeta. Lasciamo la parola
direttamente a Firpo che riporta nella Storia di un diario che mutò padrone
(edizione ligure dell’Unità, 6 marzo 1956): “Poeta? – mi grida fra i
denti stretti (il maresciallo delle SS che lo sta interrogando) – Poeta?
E mi scaraventò un ceffone con la sua mano enorme”. In seguito fu
liberato da un sottufficiale tedesco. Chi legge, chi pensa, chi è poeta è uomo
di cultura e come tale non può non far paura ai regimi dittatoriali perché non
si piegherà mai né mai accetterà di essere servo delle ideologie del potere e
di potere. Per tutto ciò Edoardo Firpo fu perseguitato e fu vittima di quel
nazifascismo che aveva sempre contrastato: non solo nelle lettere che
scriveva, nel suo Diario personale e in poesia, ma, se pur non
platealmente, anche nei fatti. Era
contro i soprusi e la sopraffazione, soprattutto era contro la guerra e scrisse
una commossa invocazione, più che una semplice poesia, alla pace perché...
perché la guerra (e lo vediamo e lo viviamo anche oggi)
“che scempio che n’àn
faeto... che
disastro ne han fatto…
a porta de l’inferno
e de rovinn-e”. porta dell’inferno e di rovine.
E oggi, mentre in
varie parti del mondo imperversa la guerra “che scempio che n’an faeto...”,
suonano ironici e tutt’altro che maldestri i versi:
“Nisciùn se scorde
quello che l’e staeto Non dimentichi nessuno ciò che è stato
oggi che a Paxe a l’e
torna insidià..”. oggidì che la Pace è ancora in pericolo…
Tutta da leggere,
anche nella nostra epoca, e meditare l’invocazione Pe-a paxe minaccià:
Pe-a paxe minaccià Per
la pace minacciata
“Paivan sinsae
d’argento i bombardè “I bombardieri parevano zanzare d’argento
lasciù in to çe
seren, lassù nel cielo sereno,
mentre sganciavan bombe mentre sganciavano bombe
da Rùo a Corniggen. da Rivarolo a Cornigliano.
Oh...quello çe
seren!... stradda do sò!... Oh… quel cielo sereno… strada del sole!...
lago queto do falco! lago tranquillo del falco!
giardin de
rondaninn-e!... giardino delle rondini!...
che scempio che n’àn
faeto... che disastro ne han fatto…
a porta de l’inferno
e de rovinn-e. porta dell’inferno e di rovine.
De neutte, doppo
l’urlo de sirene, La notte, dopo l’urlo delle sirene,
bruxiava tutta Zena; Genova era tutta un incendio;
finn-a in sci monti
tenebrosi, i roghi fin sopra i monti, i roghi
completavan a scena. coronavano lo spettacolo.
Chi l’aviae mai ciù
dito a quelli tempi Chi avrebbe mai detto allora
che andavo ancon a-a
schèua, quando andavo ancora a scuola
che int’un giorno
lontan, che un giorno lontano
a casa de l’infanzia
a sa distruta la casa della mia infanzia andasse distrutta
da un tremendo uragan da un terribile uragano
de bombe e de
spezzoin! di bombe e detriti!
Nisciùn se scorde
quello che l’e staeto Non dimentichi
nessuno ciò che è stato
oggi che a Paxe a l’e
torna insidia... oggidì che la Pace è ancora in pericolo…
Donne, che anchèu ve
unì pe lancià un crio Donne, che unanimi oggi lanciate un grido
d’allarme e de
difeisa d’allarme e di allerta
urlaelo forte a -o
mondo o vostro crio lanciate al mondo un grido alto e forte
a chi l’à da sentì; a coloro che lo devono scoltare;
urlaelo forte a -o
mondo o vostro crio.” anciate al mondo un grido
alto e forte.”
Un cattedratico genovese e un caro amico che non è più, Franco
Croce, in una introduzione su Firpo ebbe a rivendicare “una originalità, un
risalto autonomo e sicuro”, non tanto limitati alla letteratura dialettale,
ma – come anche qui si è sostenuto e si è cercato di dimostrare – “nel
quadro storico della più importante lirica novecentesca”. Si può così
davvero chiudere la presente analisi
con questo pensiero
di Croce che coglie ed esalta l’essenza lirica del nostro autore: “La sua
(i.e.: di Firpo) poesia nasce spesso da una cronaca modesta ed ha bisogno
sempre di un affettuoso rapporto con realtà locali e di una complice simpatia
del lettore per i sentimenti e i paesaggi che la ispirano”.
“A festa de San Giambattista” La
festa di S. Giovanni Battista
(traduzione di Carlo
Cormagi)
Quanti figgêu giavan Quanti ragazzi in giro
pe-e stradde e i
caroggin per strade e vicoletti
con de latte
ammacchae con barattoli ammaccati
caffetee e tianin, caffettiere o tegamini,
a domandâ palanche a domandar soldi
pe-o santo da
çittae!... per il santo della città!...
– Ghe mettei ninte pe
San Giambattista! – – Niente per S. Giovanni Battista?
– Piggiae, gh’ei meza
motta –, – Prendete, mezza lira.
E tutti a fase sotta E tutti a farsi sotto
allegri, invexendae, allegri, entusiasti,
e poi a fâ
tombarelle, e poi a far capriole
(che diai
descadennae!...) (che diavoli
scatenati!...)
Ancon me pâ de
veddive Ancora vi rivedo
belli figgêu da Foxe, ragazzini della Foce,
chêutti, rostii da-o
sô, cotti, bruciati dal sole,
a strêuppe, mezi nui, a frotte, mezzi nudi,
tutti desbandelae. tutti sbrindellati
coa testa asberuffâ, con la testa arruffata,
quande sott’ai
barcoin quando sotto alle finestre
ve metteivi a cantâ: cominciavate a cantare:
“Cacciae e legne da
bruxiâ “Dateci la legna da bruciare
dunque andièi a ca do
diao, altrimenti andrete a casa del diavolo,
a ca do diao se ghe
sta mä, a casa del diavolo ci si sta male,
cacciae e legne da
bruxiâ, dateci legna da bruciare,
de careghe, di
careghin, sedie e seggiolini,
de banchette, di
banchettin, panchine e panchettine,
de spassoie, di
spassoiin, scope e spazzolini,
daene e legne pe fâ o
fòu…” date la legna per il falò…”
Belli figgêu da Foxe Ragazzini della Foce
a m’è restâ in te
l’anima nel cuore mi è rimasta
a vostra fresca
voxe!... la vostra fresca voce!...
A seja
poi da festa che invexendo! La sera della festa, che confusione!
Balloin
areostatici coa spunzia Aerostati con il fornello
a
spirito, e comete sciù in to çê, a spirito, comete in alto nel cielo,
e poi
ciù tardi furgai, tricchetracche, e poi più tardi petardi e tricchetracche,
crocchette,
scoriserve da fâ criâ bombette, “cacciaserve” da far gridare
e donne
in sci scalin, e pesci friti, le donne sugli scalini, e pesci fritti,
e
imbriaeghi in strambaelon e imbriaeghi driti. e ubriachi traballanti e ubriachi in piedi
dritti.
Baracche
e baracchette tutte frasche Baracche e baracchette tutte di frasche
de pin e
de castagna e lampionetti, di pino e di castagno e lampioncini,
ghirlande
de papë e organetti ghirlande di carta e organetti
de quelli
coa maneggia destonae, di
quelli a manovella stonati,
lumetti
in sci barcoin e in sce-e terasse lumini sulle finestre e sui terrazzi
feste da
ballo e figge ammalocchae. feste da ballo e ragazze palpeggiate.
E poi o
fòu. o grande fòu a-o mâ, E poi il falò, il grande falò al mare,
in mezo
a-a nêutte fantasioso fêugo fuoco fantastico nel cuore della notte
che
l’aegua a rifletteiva mäveggiâ. che l’acqua rifletteva con stupore.
Aggiunta alla poetica di Edoardo Firpo
Edoardo Firpo,
primo di sei figli, nacque nel 1889 e morì nel 1957. Dal suo Diario
emerge tutta la sua misoginia e la sua sessuofobìa, testimoniate anche dal
difficile e contrastato rapporto con la madre morta nel 1942. Allo scoppio
della Prima Guerra Mondiale, a causa della sua gracile costituzione, venne
assegnato ad un deposito prima a Genova, poi ad Asti e quindi a Torino ove
rimase fino al concludersi della guerra. Quando, nel 1919, fece ritorno a
Genova, si unì ai letterati e pittori genovesi del gruppo “All'insegna della
Tarasca”. Possedeva una personalità scontrosa, non disdegnava vivere isolato, ma,
una volta libero dal suo lavoro di accordatore, gli piaceva dedicarsi al suo
hobby preferito: la pittura (pastelli e disegni) “con un gusto tra liberty e
divisionista” e raggiungendo un validissimo livello tale che, nel 1930,
l'Accademia Ligustica di Belle Arti lo nominò “Accademico di merito”. Oppure,
caricatosi dell'immancabile zaino contenente qualcosina da mangiare (poco,
però, per sé e per i suoi amatissimi... gatti!) e zeppo invece di libri
(Petrarca e Leopardi su tutti), affrontava lunghe solitarie passeggiate, tutto
teso ad ascoltare i labili fruscii e i lieti rumori della Natura e, nel
contempo, ad osservare animaletti, erbe e fiori immerso nel silenzio e lontano
dalla rumorosa città. Con la solitudine amava intensamente il silenzio tanto da
lasciar scritto: “Sarei lieto se dopo di me si facesse subito silenzio”.
Nel 1945 i fascisti lo arrestarono e venne liberato quando ormai la Liberazione
era prossima. Nel 1946, anche se non di provata fede marxista, si iscrisse al
P.C.I. presso la sezione Tito Nischio in via Casaregis e iniziò a collaborare
con L'Unità rimpinguando un poco i suoi miseri guadagni di accordatore presso
privati e scuole comunali genovesi.
Le sue immagini poetiche, nella loro secchezza e
semplicità, assurgono a veri e propri “correlativi oggettivi” del suo stato
d'animo, della sua una sofferta, malinconica e solitaria interiorità e si fanno
altresì elementi costitutivi di una personalissima metafisica che, sia chiaro,
contribuisce al superamento del bozzettismo ottocentesco tipico della poesia
dialettale: indubbiamente, il periodo tra le due guerre nella poesia in lingua
genovese e/o ligure vede primeggiare la presenza di Firpo.
C'è chi, tra i critici, ha colto nelle liriche di Firpo
sia pur lievi sfumature gozzaniane (Firpo aveva conosciuto Guido Gozzano
a Genova) e flebili toni di impressione pascoliana, chi particolari echi della
tragicità montaliana, chi ancora quel disperato e disperante senso di
solitudine e vagabondaggio che, in qualche misura, lo vuole assimilato a
Ceccardo Roccatagliata Ceccardi. Dal mio personale punto di vista, quello ch'io
definisco “firpianesimo” si connota anche per una certa, pur se
limitata, sensibilità di natura leopardiana, cioè del poeta a lui
particolarmente caro: egli, infatti, si lascia ispirare dal “particolare o
quasi-particolare” – che possono essere, per fare qualche esempio, il filo
d'erba o il seme del cardo, la farfalla, l'allodola o il gattino morto, ma
anche il mare o il cielo (Quanti, quanti i particolari nelle sue liriche!
Quanti i particolari da cui il poeta si lascia incantare!) – che mira e tende a
trasformarsi nell'eliotiano “correlativo oggettivo” del “quasi-universale”,
imbevuto o intriso di un fuggevole e impreciso sentimento religioso che,
tuttavia, non giunge né raggiunge l'eterno.
Nel secondo volume di “La letteratura ligure. Il
Novecento” (edizioni Costa & Nolan, Genova 1988), il critico, poeta e
traduttore imperiese Cesare Vivaldi (1925-1999) dedica un ampio e
ben strutturato studio, suddiviso in quattro sezioni, a Edoardo Firpo, per
lui “teneramente paesaggistico e nostalgico” oltre che “poeta
discontnuo” E Firpo, sostiene l'autore del saggio, “al suo
meglio … è vero e alto poeta, capace di un'intensità di voce stupenda”:
in gran parte sulla stessa linea di pensiero anche Montale e Pasolini (cfr. 1.
Un poeta discontinuo, p. 104). Trattando della vita del poeta genovese,
richiamandosi in particolare al Diario che Firpo ci ha
lasciato, il critico afferma che “...la vita di Firpo è
interamente calata nella poesia: dato anzi, per dir meglio, che la poesia è
stata da lui in un certo senso delegata a vivere per lui.” (cfr. 2.
La vicenda umana, p. 105). Sempre di Vivaldi l'inquadramento che coglie, lo
ribadisce il critico, come concetto fondamentale della poesia firpiana “il
sentimento della morte, del fluire irrevocabile e impietoso del tempo e delle
cose nel tempo, la loro continua metamorfosi fino alla finale meta”
(cfr. 3. Le prime opere, p. 109). Concludo ricordando che Vivaldi
ha ragione nel rilevare come Firpo riesca a pervenire “alla
cristallina purezza, a un'atmosfera veramente e personalissimamente metafisica
nelle Ultime poesie”. Ed è proprio in questi componimenti che la sua
poesia si fa puro suono e pura luce. (cfr.
4. Ciammo u martinpescòu, p. 115).
...e su altre voci e presenze poetiche
focesi.
La Foce è un quartiere storico della Superba
che *si affaccia a est del Porto e della Fiera di Genova e che *si estende
nella piana del Bisagno (Bis amnis =
in cui si riversano due torrenti) tra i versanti occidentali dell'altura
di Albaro e la sponda sinistra del torrente, che venne totalmente ricoperto nel
tratto che traversa il quartiere.
A evocare il quartiere della Foce in cui
abitava, non fu solo Edoardo Firpo (Genova, 20 aprile 1889 – Genova, 10
febbraio 1957), che era poeta e pittore, che, come già suo padre, esercitava il
mestiere di accordatore di pianoforti e che abitava proprio in Via Casaregis
12. Oltre a lui, infatti, hanno descritto, cantato o citato il quartiere della Foce:
*Mario Cappello, cantante, l'autore al quale
sono anche attribuite le parole della canzone “Ma se ghe penso” (1925) –
da assegnarsi con più probabilità al grande autore della canzone genovese Costanzo
Carbone (1884-1955) – messa in musica dall'ottimo pianista e compositore Attlio
Margutti. Si tratta di un vero e proprio inno denso di amore e carico di
nostalgia per Genova, la patria lontana per chi è stato costretto ad emigrare.
Com'è noto, è diventato il nostalgico canto dei Genovesi emigrati verso la
lontana America del Sud, in particolare l'Argentina.
Sono svariati i cantanti e gli artisti che si sono
misurati e hanno dato la loro personale interpretazione della melodiosa e
malinconica canzone genovese: dall'inimitabile Gilberto Govi (1885-1966) ai
bravissimi Mina, Antonella Ruggiero e Massimo Ranieri e ai conduttori
televisivi, attori e comici Luca Bizzarri e Paolo Kessisoglu, abilissimi e
divertenti intrattenitori.
Il quartiere della Foce è richiamato nella
seconda strofa, poi ripetuta:
“Ma se ghe penso” “Ma
se ci penso”
Ma se ghe penso allôa mi veddo o mâ, Ma se ci penso, ecco che rivedo il
mare,
veddo i mæ monti e a ciassa da Nûnsiâ, rivedo i miei monti e piazza della
Nunziata.
riveddo o Righi e me s'astrenze o chêu, rivedo il Righi e mi commuovo
profondamente,
veddo a Lanterna, a Cava, lazû o mêu... rivedo la Lanterna, la Cava,
e il molo in lontananza...
Riveddo a-a seja Zena inlûminâa, Rivedo, a sera, Genova
tutta illuminata,
veddo là a Fôxe e sento franze o mâ... rivedo là la Foce e sento
infrangersi il mare...
N.B.: Cava, nota spiaggia, frequentata non solo dagli abitanti della Foce, che venne interrata per due ragioni: a) la costruzione della Fiera di Genova; b) il previsto ampliamento del porto.
*I Trilli:
famoso duo formato da Pucci (Giuseppe Deliperi, 1942-1997) e Pippo
(Giuseppe Zullo, 1948-2007). Sono autori di molte diffuse e amate canzoni in
lingua genovese nelle quali non mancano di citare con impeto anche il nostro
quartiere della Foce.
Trilli Trilli Trilli
trilli
Stamme ûn
po a sentì, Statemi
un po' a sentire,
viätri da Fôxe, chi ve salva voi della Foce,
chi vi salva
son quelli de Boccädase son quelli
di Boccadasse
che sun ciù tarlûcchi de
viätri... che
sono più babbei di voi...
Fôxe de Zena Foce
di Genova
Semmo de Zena, Siamo
di Genova,
semmo da Fôxe... siamo della Foce...
Veddiemu Zena tutta inluminà Vedremo Genova
tutta splendente di luci
che gran bellezza pe- a Fôxe,
pe-u mâ. è tutta una
meraviglia per la Foce, per il mare.
Fôxe ti te a ciù bella Fôxe, Foce, sei tu
la Foce più bella,
Fôxe ti te a ciù bella de tutta
Zena Foce
sei la più bella di tutta Genova
N.B.: Oggi
il figlio di Pippo, Vlady (Vladimiro Zullo) con Zino (Francesco
Zino), ha ridato vita a “I Trilli” e cerca di ripercorrere, con successo, la
via tracciata dai noti Pucci e Pippo.
*Fabrizio De André (1940-2009) amava
profondamente la lingua genovese con le sue origini, derivazioni e sviluppi
nell'area mediterranea, collegata e raccordata alle lingue e ai suoni dei paesi
che si affacciano sul Mediterraneo. La riprova è il suo album titolato “Creuza
de ma”, tutto cantato in lingua genovese, lingua che in passato era
parlata e usata per la navigazione in tutto il bacino del Mar Mediterraneo.
De André visse alla Foce: abitò in Via Trieste,
studiò alla Scuola Media Pascoli allora in Via Liri, frequentò in Via Cecchi e
zone limitrofe gli amici Bindi, Lauzi, Mannerini, Paoli, Tenco et al.
che dovevano dar vita a quella che fu, non del tutto propriamente, considerata
la “Scuola genovese dei canatutori”. Una delle canzoni dedicate a Genova,
secondo me, con verità e forza, con amore e furore, reca il titolo di “A
Domenega” e richiama la Foce in un verso crudo e irriverente
che, certamente, si rifà alle cosiddette “donne di vita” che un tempo,
numerose, circolavano nella zona:
… a Fuxe cheusce a sciaccanuxe” … alla Foce cosce a schiaccianoci
*Bruno Lauzi (1937-2006) appartiene alla Foce.
Anch'egli si incontrava in un bar di Via Cecchi con gli amici, unici e speciali
davvero, tutti “focesi”: Riccardo Mannerini (1927-1980), Umberto Bindi
(1932-2002), Gino Paoli (1934-viv.), Luigi Tenco (1938-1967), Fabrizio De André
(1940-1999), et al. Inoltre frequentò l'austero e prestigioso Liceo
Classico “D'Oria” ed ebbe, al Ginnasio, come compagno di banco per un anno
Luigi Tenco. Quest'ultimo passò poi al Liceo Scientifico “Cassini” e, unico sul
oltre 250 privatisti, superò l'esame di Maturità sostenuto presso il “Convitto
Colombo”. Scrive Lauzi: “Vedere la Foce, che i foresti non
capiscono perché si chiami così, e scoprire che è a causa di un torrente che a
un tratto scompare coperto da viali e giardini” e queste sue note sono
da abbinare alle immagini e alle parole del recitativo “La nostra
spiaggia”. Ecco come si espresse Lauzi sul suo quartiere la Foce, lui
che alla Foce visse e passò gli anni belli della sua giovinezza con gli
amici “speciali” sopra citati: “Ricordo che c'erano solo i relitti delle
chiatte da sbarco: quello era il nostro parco-giochi di chi sognava l'avventura
e lungo tutta la Foce l'acqua era limpida e pura e sugli scogli i
pescatori avevano la mano sicura: e così tanti anni fa era il nostro quartiere...”.
P.S.: Si
veda anche quanto scrive Stefano Verdino a proposito della “scuola dei
cantautori genovesi” a pag. 319 del citato secondo volume di “La
letteratura ligure. Il Novecento” (edizioni Costa & Nolan, Genova 1988).
Nessun commento:
Posta un commento