Il 15 aprile 1860 Garibaldi giunse a Genova,
dove fu ospite di Candido Augusto Vecchi alla Villa Spinola di Quarto (allora
comune suburbano autonomo). Il Generale aveva da poco rinunciato a “un colpo di
mano” su Nizza, sua città natale, per impedire lo svolgimento del plebiscito,
che doveva sanzionare l’annessione alla Francia in cambio della “non ingerenza”
di Napoleone III, imperatore dei Francesi, nelle annessioni al Piemonte degli
ex-Ducati dell’Italia Centrale e delle Legazioni Pontificie. L’organizzazione
per la spedizione in Sicilia, dove il 4 aprile a Palermo era scoppiata una
rivolta, subito repressa dalle truppe borboniche (ma era ancora in vita sui
monti retrostanti la città), sia per la difficoltà di reperire armi
(soprattutto fucili), sia per la scarsità di notizie provenienti dall’Isola, fu
molto complessa. In realtà Garibaldi, considerato il tragico epilogo, nel 1857, della spedizione nel Sud Italia di Carlo Pisacane, esitò a lungo prima di
prendere una decisione definitiva circa la partenza da Genova. In caso
affermativo, però, aveva posto questa condizione: «Tutta l’Isola deve essere
insorta». Allora il siciliano Francesco Crispi, sostenuto dal genovese Nino
Bixio, cercò di forzare la situazione, facendo pervenire a Garibaldi un falso
telegramma in cui si annunciava che tutta la Sicilia (e non solo Palermo) era “fuoco
e fiamme”. Per l’esattezza, il testo del dispaccio, di cui l’autore era Crispi,
recitava: «Incendio-est-totale».
Nel frattempo, da tutte le parti dell’Italia
erano arrivate a Genova centinaia di volontari (i più numerosi erano i
Bergamaschi), per lo più in abiti borghesi. Costoro fremevano nell’attesa di
imbarcarsi per la Sicilia. La maggior parte di essi (più di 800 e non 600, come
da alcuni è stato detto) si radunarono nel Ponente della Foce: l’unica zona
pianeggiante del Genovesato, con una lunga e larga spiaggia che si estendeva da
Punta Vagno al Bisagno, dove la popolazione era composta in prevalenza da
pescatori e contadini. Quest’ultimi erano chiamati nel loro dialetto (il “focese”)
besagnini, poiché i loro orti si
estendevano lungo le rive del fiume Bisagno e costituivano, assieme ai
pescatori, una comunità solidale, eretta, appunto da Napoleone Bonaparte nel
1801 a Comune autonomo. Ed ortolano era pure Tommaso Parodi (sarà il decano
della Spedizione, essendo nato nel 1791), che nel 1843 aveva combattuto nell’Uruguay
alla difesa di Montevideo nella Legione Italiana, sotto il comando di
Garibaldi. E fu quasi certamente il Parodi ad organizzare il trasporto dei
volontari dalla Foce fino a Quarto: trasporto che i pescatori del luogo
effettuarono mediante i loro capaci barconi (o “gozzi” o “burchielli”), che
potevano contenere una decina di persone. Avrebbero dovuto remare con forza per
poter trasportare tutti i volontari dalla spiaggia al largo, dove erano ancorate
le navi, in attesa dell’imbarco!
E lo stesso Parodi, probabilmente, fu
presente a una specie di Consiglio di Guerra, presieduto, il 1° maggio, dal
generale Garibaldi e svoltosi nella signorile abitazione del medico-patriota
Agostino Bertani (a letto perché ammalato), sita a Genova in Strada Nuovissima
(al numero 15 dell’attuale via Cairoli esiste la lapide commemorativa dell’evento).
Qui furono stabiliti minuziosamente tutti i particolari (i tempi e le varie
fasi) sia dell’imbarco sia della partenza. Per ultimi, Garibaldi e il suo Stato
Maggiore si sarebbero imbarcati a Quarto.
Il 4 maggio, a partire dalle nove del
mattino, avrebbero dovuto svolgersi, entro il tempo massimo di tre ore, le
operazioni d’imbarco su due vapori della Società Rubattino: il Piemonte e il Lombardo. Il comando del Piemonte,
dove, al largo di Quarto, sarebbe salito Garibaldi, fu assegnato a Nino Bixio
che, in gioventù, era stato marinaio; a Benedetto Marsiglia toccò il Lombardo. Secondo il piano prestabilito,
alle nove del mattino, Bixio seguito da alcuni “uomini di mare”, finse di
impadronirsi dei due vapori, come se si trattasse di un’azione piratesca ai
danni dell’armatore Rubattino. Ciò al fine di evitare complicazioni
diplomatiche sia con la Francia sia con l’Austria. La prima fase delle
operazioni d’imbarco sui due vapori ormeggiati in Dàrsena si svolse
velocemente: i volontari imbarcatisi sulle due navi, probabilmente, erano poche
decine. Le operazioni d’imbarco alla Foce, dove fin dall’alba i pescatori erano
pronti per trasportare al largo centinaia di Camicie Rosse, furono lunghissime. Quando furono terminate, erano
quasi le sei di quel “mitico” 5 maggio. Poco dopo, le navi si fermarono al
largo degli scogli di Quarto. Le barche e i “gozzi” dei pescatori fociani,
straccarichi dei volontari e dei bagagli, si assieparono sotto i fianchi delle
navi. Dopo circa mezz’ora una voce gridò: «Non salga più nessuno!».
Dopo la conquista di Palermo (maggio 1860)
Tommaso Parodi ritornò a Genova e alla Foce, dove continuò a fare il besagnino e dove morì, quasi centenario,
nel 1890. Poiché aveva combattuto a Calatafimi e a Palermo, nel 1870, per Regio
Decreto, gli fu assegnata la “pensione vitalizia” (lire cinquanta) di “garibaldino
combattente”.
G
Questa targa, posta originariamente sulla torretta presso il cantiere della Foce a Punta Vagno, nel luogo corrispondente al punto d'imbarco, fu spostata durante i lavori di demolizione dei cantieri 50 metri ad ovest, dove era la sede della Società dei Pescatori.
Guido Sylva, uno dei Mille (1), scrisse:
"Chi giungeva in treno da Principe si costituiva in drappelli di otto uomini con un capogruppo che a ore segnate si recava in un posto convenuto a ricevere ordini. Il 5 maggio sono avvisati di recarsi alla sera fuori di Porta Pila sulla spiaggia del Bisagno. E' una splendida notte di luna piena. Pochi rumori e tutti erano in attesa di notizie. Ad un tratto uno sconosciuto si butta in acqua; viene salvato; è malato, ma vuole partire lo stesso; quel gesto lo ripeterà anche sulle barche. A mezzanotte accosta una flottiglia di barche. Salgono alla rinfusa; alle due sono a Quarto. Stanno quattro ore in attesa delle navi che finalmente, anticipate da fanali rossi e verdi, quasi all'alba arrivano. Le chiatte si avvicinano, i volontari salgono sulle navi. Di là vedono uscire da villa Spinola Garibaldi, seguito dal suo stato maggiore che va a prender posto sul Piemonte".
1) Nacque a Bergamo nel 1844 e vi morì nel 1928. Non ancora quindicenne, si arruolò nelle file dei Cacciatori delle Alpi e partecipò a numerosi scontri con le forze austriache. Nel 1860 prese parte alla spedizione dei Mille e fu ferito durante un attacco nei pressi di Calatafimi. Dopo la convalescenza gli fu attribuito il grado di sottotenente. Alla testa dell’VIII compagnia, composta da bergamaschi, il Sylva entrò in Napoli il 7 settembre e a Capua il 2 novembre. Conclusa l’impresa, egli entrò nell’esercito regio e nel 1866 partecipò alla battaglia di Custoza. Nel 1867 lasciò l’esercito e rientrò nella vita civile dedicandosi al commercio della seta. Tuttavia riprese le armi nel 1871 e come capitano di stato maggiore dei volontari garibaldini combatté nei Vosgi a favore della Francia, dalla quale fu insignito della Legion d’Onore. Preoccupato di correggere errori e di rettificare o di integrare notizie correnti sulla spedizione dei Mille e sul garibaldinismo, il Sylva pubblicò alcuni memoriali storici importanti per il loro intrinseco valore di attendibile testimonianza; fra essi assume rilievo la monografia intitolata Cinquant’anni dopo la prima spedizione in Sicilia, apparsa nel 1910 e ripubblicata con aggiunte cinque anni dopo con il nuovo titolo L’VIII compagnia dei Mille. Fu socio dell’Ateneo di Bergamo.
BIBLIOGRAFIA
AA.VV.,
Föxe de Zena, Genova, SAGEP, 1996
G.C.
Abba, Da Quarto al Volturno, Bologna,
Zanichelli, 1934
D.Mack
Smith, Garibaldi, Milano, Mondadori,
1956L. Morabito (a cura), Genova Garibaldina e il mito dell'eroe nelle collezioni private, Genova, De Ferrari, 2008
LA CAMICIA ROSSA
Rosa Elisa Giangoia
I Mille si imbarcarono a Quarto con i loro abiti borghesi; faceva eccezione il gruppo dei Carabinieri Genovesi che aveva una propria uniforme. Durante il viaggio furono distribuite 50 camicie rosse e solo dopo la presa di Palermo il costume garibaldino divenne la divisa, pur non ufficiale, dei volontari garibaldini.
Camicia di Garibaldi (Museo del Risorgimento - Istituto Mazziniano Genova) |
Dopo il 1860 vi fu una certa uniformità tra le uniformi garibaldine, quando un intraprendente industriale, Alessandro Antongini, proprietario delle lane Borgosesia, lanciò sul mercato una stoffa di lanetta leggera in una apposita tinta detta "rosso garibaldino" la cui "ricetta" è conservata negli archivi della Borgosesia.
Rosa Elisa Giangoia
Un'altra figura lega i Mille alla zona della Foce, ed è, appunto quella della "camiciaia dei Mille, ben tratteggiata da Pier Luigi Derchi nel suo omonimo romanzo (Erga Edizioni, Genova 2006), in cui viene rievocata la vicenda di Agostina Baglietto, figlia di Benedetto, Console dell'Arte dei Calafati dal 1852, originario di Varazze e con alle spalle un'esperienza di lavoro a Gibilterra.
Questa giovane genovese lavorava nel negozio laboratorio delle sorelle maggiori nella zona di Porta Pila e, per far piacere alla sua amica e compagna di lavoro Francesca, confezionò una camicia rossa per il fratello, intenzionato a partire con Garibaldi. Di lì sarebbero nate tante altre ordinazioni di camicie rosse per i garibaldini. In seguito Agostina si sposò con Camillo Daccà, manente della villa di famiglia in Albaro, e gli sposi misero "su casa nei pressi di un viale della Genova nuova, in via della Libertà". Condussero una vita serena e tranquilla, allietata da due figli, Carlo e Rosetta, che, rievocando un momento della sua fanciullezza, ebbe a dire: "Papà e mamma erano molto religiosi; mio padre era confratello della Conferenza di S. Vincenzo de Paoli della loro parrocchia di S. Zita prima e successivamente di S. Francesco d'Albaro, quella mattina d'inizio estate si era andati tutti a messa al Rimedio di piazza Alimonda, la chiesa amata dalla mamma, dove all'uscita aveva l'opportunità di incontrare amiche e anziane clienti e papà di parlare con contadini e manenti scesi da Albaro e gli amici della Società di Mutuo Soccorso fra Operai e Contadini del confinante comune di S. Fruttuoso" (p. 55).
Camillo morì nel 1941 e Agostina l'anno dopo. Riposano nella cappella di famiglia di Voltaggio dove avevano preso l'abitudine di trascorrere l'estate.
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