mercoledì 16 gennaio 2019

LA PESCA ALLA FOCE


Severino Fossati
   La maggior parte degli abitanti del Borgo della Foce viveva prevalentemente di pesca.
   Il lavoro nel “cantiere navale della Foce”, a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento, era ormai meccanizzato e lo sarà ancora di più con la gestione Odero che elettrificò gli impianti, sostituendo la forza motrice del vapore: quindi gli operai erano degli specializzati, abitanti alla Foce, ma nei nuovi edifici di via della Libertà e nel “Casone” del Borgo del Rivale che chiudeva a ponente la piazza del Popolo. Solo qualche manovale poteva essere assunto per brevi periodi, qualora fosse divenuto necessario.
   D’altronde quello del pescatore era ed è tuttora un lavoro da specialista, eseguito da professionisti. Alla Foce probabilmente c’era qualche carpentiere, se non proprio maestro d’ascia, capace di riparare e costruire le barche. Chi ne aveva la possibilità, allevava qualche gallina o coltivava un piccolo orto posto a monte, dietro le case: serviva ad integrare l’attività principale che era la pesca. Esisteva pure una classe di contadini, distribuita nelle case sparse nella piana, quindi non viveva nel Borgo: erano i noti produttori di frutta e verdure che hanno dato poi il nome ai venditori di tali prodotti (Besagnin). L’ultima famiglia che alla Foce produsse verdura, coltivava tra la via Lavinia e via Cesare Battisti e in quest’ultima via, la domenica, vendeva i suoi prodotti a chi usciva dalla Santa Messa, officiata nella palestra della scuola Diaz a causa della distruzione (avvenuta nella seconda Guerra Mondiale) della chiesa dei SS. Pietro e Bernardo.
   La pesca era organizzata dal padrone della barca principale, che possedeva anche tutte le attrezzature necessarie, reti, lumi e verricello per trarre in secco la barca. Il padrone era il capo pescatore, e quindi stabiliva la partenza, andando a chiamare gli altri: andava di persona sotto casa anche di notte e chiamava l’interessato per nome. La paga dipendeva dalla pesca: il pescato veniva venduto e quindi il ricavato diviso in sette parti, di cui tre spettavano al padrone per gli attrezzi; la rimanenza veniva divisa fra gli altri. Se gli attrezzi erano pochi, le parti del padrone erano solo due. Una battuta di pesca poteva richiedere numerose persone: con la lampara serviva una decina di persone, di cui almeno quattro sulla barca madre, compreso il padrone e quattro o cinque singolarmente sulle altre piccole barche con i lumi. Quando non esisteva ancora il motore, andando a remi, sulla barca madre erano almeno sei.
   Il pesce veniva venduto alla Foce, in loco, ma anche all’interno, verso Borgo Pila e San Fruttuoso. In città ne andava poco: solo attraverso conoscenze personali con qualche pescheria, perché a Genova queste non erano numerose, e le poche erano in Sottoripa. Probabilmente c’era anche il problema del dazio che era da pagare entrando in città, forse più elevato rispetto a quello dei comuni limitrofi.
   La pesca professionale si svolgeva da febbraio a settembre; da ottobre a gennaio era tutto fermo, salvo le iniziative personali con una barca singola. Già a gennaio, ma soprattutto a febbraio, si pescava la “fritturina”. Dalla metà di febbraio fino ad aprile si pescavano i “bianchetti” che rappresentavano la pesca più remunerativa. Dopo aprile, fine a settembre, si pescavano le “acciughe”. Naturalmente, saltuariamente capitava qualche altro pesce anche pregiato, “triglie” e i “rossetti” che però già negli anni Trenta del secolo scorso erano ormai assenti dalle acque delle zone raggiungibili dai pescatori della Foce: per trovarne era necessario andare nelle acque oltre Sestri Levante. Venivano presi anche polpi, ma facevano parte di un’attività di tipo sportiva, anche se poi il polpo veniva venduto.
   I tipi di rete usati erano quelli noti, soprattutto quattro: la “Lampara”, la “Menaide” (o Manate), il “Tremaglio” e la “Sciabica” (o Rastellu). La “Lampara” è un tipo a strascico, lunga 230 metri, alta 15 braccia1 e raggiunge il fondo. Sul suo fondo vi sono degli anelli che permettono lo scorrere di un cavo che serve per il recupero e la raccolta del pesce. Si cala in una zona pianeggiante a profondità uniforme di circa 14 braccia: di queste zone ne esistono varie a levante di Capo Santa Chiara, tra capo e capo. Dopo aver ammucchiato il pesce con i lumi delle piccole barche che inizialmente sono disposte in cerchio con la madre a distanza di 30 o 50 metri, la circonda calando la rete che viene poi chiusa agendo sulla sagola2 che scorre negli anelli sul fondo della rete.
   Anche la Manate era usata per le acciughe e le sardine: è a maglie molto fitte e si calava perpendicolarmente alla corrente, disposta verticalmente. Si usava unendo tre pezzi da 100 metri, tenuta un braccio (circa due metri) sott’acqua con sugheri cui era legata una sagola di due metri. I sugheri erano posti ogni 5 braccia. La rete era recuperata da poppa della barca e lo faceva un solo uomo che riceveva spesso il cambio essendo un lavoro faticoso. Gli altri nel frattempo recuperavano il pesce uno alla volta togliendolo dalla maglia della rete.
   Analoga alla Manate è il “Tremaglio”, costituito da tre reti, di cui le due esterne hanno le maglie da 15 centimetri, mentre l’interna le ha da 3 centimetri. I sugheri sono posti ogni mezzo metro in alto. Mentre in basso vi sono i piombi, ogni 20 centimetri, pesanti 30-50 grammi. Era usabile da un solo uomo: si lasciava in mare da 8 a 12 ore, specie la notte e raccoglieva tutto, anche pesci grossi, attratti dai pesci piccoli già nella rete piccola e quindi presi a loro volta nella rete a maglie grandi.
   La “Sciabica” veniva usata per la frittura e per bianchetti. Veniva calata da una barca partendo da terra dove veniva lasciata in custodia l’estremità di un cavo; la barca si allontanava calando la rete fino al sacco (Manega) a maglie fittissime. Quindi la barca tornava a terra con l’estremità dell’altra cima3, non molto distante da dove era stata lasciata la prima. A questo punto si iniziava a tirare le due cime avvicinando le due estremità: all’operazione prendevano parte dei volontari presenti sulla spiaggia, disoccupati sfaccendati ed ubriaconi che nello sforzo a volte cadevano e si conquistavano il nome di “Straccioni da sciabica”4.
   Esisteva una sciabica piccola, detto Rastellin5 che veniva utilizzato con le stesse modalità ma lontano dalla riva, da due persone su una barca, traversata6 e tenuta con un ancorotto7 dal bordo opposto. Terminata la pesca, le reti venivano fatte asciugare, possibilmente stendendole sulle pietre della spiaggia (a).     
   Nel periodo in cui la spiaggia era molto ridotta (prima degli anni Sessanta del secolo scorso), venivano stese anche sul marciapiede di corso Italia, ma sulle pietre asciugavano meglio perché l’aria circolava tra le pietre. Il loro trasporto veniva fatto con una carretta o, parlando del passato, con una portantina (Scaletta) fatta da due assi con quattro o cinque traverse. Periodicamente le reti venivano fatte bollire in acqua dolce con cabraccio8 e scorza di pino macinata che le tingeva e le liberava dalle muffe. Quest’operazione veniva svolta sulla spiaggia con un calderone posto su un fuoco: più recentemente, usando le reti di nylon, tale azione non era più necessaria. In passato era usato il cotone, ma nel caso delle corde si usavano altre fibre: per i cavi da recuperare manualmente si è usata per secoli la lisca (Ampelodesmos Mauritanicus), perché fornisce una corda molto morbida.
   I lumi erano ad elettricità, funzionando con piccoli gruppi elettrogeni: in passato erano lampade ad acetilene, fornita di carburo. L’attrezzatura per la pesca era tenuta in magazzini posti sotto casa (Masanghin) ove talvolta erano presenti anche animali da cortile. Dopo le prime demolizioni del Borgo (fine Ottocento) per l’apertura di via Casaregis, i magazzini furono sistemati nei locali negozio di via Cravero (palazzo d’angolo con via Morini).
   Le barche erano di forma che oggi è scomparsa: il “dritto di prora” e il “dritto di poppa”, se non c’era il motore, erano a rientrare. Questo tipo era diffuso in tutta la Liguria ai primi del Novecento, come si vede nelle fotografie dell’epoca. Quando iniziarono a comparire barche con la “prora dritta” (o prominente), furono classificate come catalane, cioè straniere (o di importazione): infatti localmente si continuava a costruire all’antica come i gozzi per le regate. Sulla barca madre a motore, si portavano quattro remi, anche se gli scalmi9 erano sei, una pompa manuale d’esaurimento, l’ancorotto e almeno un salaio per il recupero del pesce. Quando non si pescava le barche erano tratte in secco10 tramite un verricello11 azionato a mano: era in legno, ed era costruito da un falegname locale. Aveva un grosso asse verticale in olmo su cui si arrotolava il cavo di alaggio12. Veniva azionato a mano, spingendo su una lunga asta che attraversava l’asse: più uomini giravano l’asse spingendo sull’asta. Prima dell’introduzione del motore le barche andavano a remi o a vela. La vela, dalle foto d’epoca, era di tipo latino13 con un albero che poteva essere inclinato verso prua e un picco14 in cui era inserita la vela. Il picco, quando la barca era ferma o in secca, veniva calato e serviva a reggere una tenda di copertura della barca.
   Nei paesi della Riviera, più grandi del Borgo della Foce, l’attività era un po’ diversa: per esempio, i pescatori di Santa Margherita si spingevano a remi o a vela fino alle acque della Foce dormendo a bordo: portavano un fornelletto per cuocere il pesce. A Boccadasse, prima della Seconda Guerra Mondiale, il ricavato della vendita era diviso in modo diverso: una parte per gli attrezzi, una per il padrone della barca e tre da dividere tra i pescatori, ma nella buona stagione la paga poteva essere settimanale anziché di tipo compartecipativo, perché andavano a pescare fino a Framura o fino in acque francesi, rimanendo in mare vari giorni.

NOTE
(a cura di Francesco Boero)
1) L’unità di misura detta “Braccio” (in inglese Fathom) è di mm. 1829.
2) Tipo di cima di piccolo diametro.
3) Nome generico di un cavo navale. A bordo è gradito l’uso del termine “cima”; solitamente viene chiamato “corda” quel pezzo di sagola intrecciato al battaglio della campana.
4) In Genovese, singolarmente Stasson da sciàbega.
5) In Italiano “piccolo cancello”.
6) Posizionata perpendicolarmente alla direzione della corrente.
7) Ancora di piccole dimensioni e talvolta di particolare fattura.
8) Il termine usato dall’autore non si capisce che tipo di sostanza sia.
9) Pezzo di ferro o di legno robusto che infilato in un foro nel bordo della barca serve con l’ausilio di un anello di corda (stroppo) ad azionare il remo.
10) Azione che porta la barca fuori dall’acqua: normalmente si dice “alaggio”.
11) Verricello: meccanismo costituito da un tamburo, girante intorno ad un asse orizzontale, sul quale si avvolge il cavo. Argano: stesso meccanismo, ma ad asse verticale.
12) Cavo che serve per tirare in secco la barca tramite il verricello e l’argano.
13) Vela latina: vela triangolare. Vela aurica: vela trapezoidale.
14) Pennone superiore che regge la vela e che normalmente è libero di scorrere su l’albero.


(a cura di Rosa Elisa Giangoia)
a) dalla tecnica di produzione con filato e nodi delle reti da pesca è derivato il lavoro femminile del pizzo a filet con il modano: http://www.fioretombolo.net/filet.htm. Questa tecnica è oggi caduta in disuso, sostituita da quella con l'uncinetto.






Un leudo sulla spiaggia della Foce

 








1 commento:

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