La maggior parte degli abitanti del Borgo
della Foce viveva prevalentemente di pesca.
Il lavoro nel “cantiere navale della Foce”,
a partire dagli anni Ottanta dell’Ottocento, era ormai meccanizzato e lo sarà ancora
di più con la gestione Odero che elettrificò gli impianti, sostituendo la forza
motrice del vapore: quindi gli operai erano degli specializzati, abitanti alla
Foce, ma nei nuovi edifici di via della Libertà e nel “Casone” del Borgo del
Rivale che chiudeva a ponente la piazza del Popolo. Solo qualche manovale
poteva essere assunto per brevi periodi, qualora fosse divenuto necessario.
D’altronde quello del pescatore era ed è
tuttora un lavoro da specialista, eseguito da professionisti. Alla Foce probabilmente
c’era qualche carpentiere, se non proprio maestro d’ascia, capace di riparare e
costruire le barche. Chi ne aveva la possibilità, allevava qualche gallina o
coltivava un piccolo orto posto a monte, dietro le case: serviva ad integrare l’attività
principale che era la pesca. Esisteva pure una classe di contadini, distribuita
nelle case sparse nella piana, quindi non viveva nel Borgo: erano i noti
produttori di frutta e verdure che hanno dato poi il nome ai venditori di tali
prodotti (Besagnin). L’ultima
famiglia che alla Foce produsse verdura, coltivava tra la via Lavinia e via
Cesare Battisti e in quest’ultima via, la domenica, vendeva i suoi prodotti a
chi usciva dalla Santa Messa, officiata nella palestra della scuola Diaz a
causa della distruzione (avvenuta nella seconda Guerra Mondiale) della chiesa
dei SS. Pietro e Bernardo.
La pesca era organizzata dal padrone della
barca principale, che possedeva anche tutte le attrezzature necessarie, reti,
lumi e verricello per trarre in secco la barca. Il padrone era il capo
pescatore, e quindi stabiliva la partenza, andando a chiamare gli altri: andava
di persona sotto casa anche di notte e chiamava l’interessato per nome. La paga
dipendeva dalla pesca: il pescato veniva venduto e quindi il ricavato diviso in
sette parti, di cui tre spettavano al padrone per gli attrezzi; la rimanenza
veniva divisa fra gli altri. Se gli attrezzi erano pochi, le parti del padrone
erano solo due. Una battuta di pesca poteva richiedere numerose persone: con la
lampara serviva una decina di persone, di cui almeno quattro sulla barca madre,
compreso il padrone e quattro o cinque singolarmente sulle altre piccole barche
con i lumi. Quando non esisteva ancora il motore, andando a remi, sulla barca
madre erano almeno sei.
Il pesce veniva venduto alla Foce, in loco, ma anche all’interno, verso
Borgo Pila e San Fruttuoso. In città ne andava poco: solo attraverso conoscenze
personali con qualche pescheria, perché a Genova queste non erano numerose, e
le poche erano in Sottoripa. Probabilmente c’era anche il problema del dazio
che era da pagare entrando in città, forse più elevato rispetto a quello dei
comuni limitrofi.
La
pesca professionale si svolgeva da febbraio a settembre; da ottobre a gennaio
era tutto fermo, salvo le iniziative personali con una barca singola. Già a
gennaio, ma soprattutto a febbraio, si pescava la “fritturina”. Dalla metà di
febbraio fino ad aprile si pescavano i “bianchetti” che rappresentavano la
pesca più remunerativa. Dopo aprile, fine a settembre, si pescavano le
“acciughe”. Naturalmente, saltuariamente capitava qualche altro pesce anche
pregiato, “triglie” e i “rossetti” che però già negli anni Trenta del secolo
scorso erano ormai assenti dalle acque delle zone raggiungibili dai pescatori
della Foce: per trovarne era necessario andare nelle acque oltre Sestri
Levante. Venivano presi anche polpi, ma facevano parte di un’attività di tipo
sportiva, anche se poi il polpo veniva venduto.
I tipi di rete usati erano quelli noti,
soprattutto quattro: la “Lampara”, la “Menaide” (o Manate), il “Tremaglio” e la “Sciabica” (o Rastellu). La “Lampara” è un tipo a strascico, lunga 230 metri,
alta 15 braccia1 e
raggiunge il fondo. Sul suo fondo vi sono degli anelli che permettono lo
scorrere di un cavo che serve per il recupero e la raccolta del pesce. Si cala
in una zona pianeggiante a profondità uniforme di circa 14 braccia: di queste
zone ne esistono varie a levante di Capo Santa Chiara, tra capo e capo. Dopo
aver ammucchiato il pesce con i lumi delle piccole barche che inizialmente sono
disposte in cerchio con la madre a distanza di 30 o 50 metri, la circonda
calando la rete che viene poi chiusa agendo sulla sagola2 che scorre negli anelli sul fondo della rete.
Anche la Manate
era usata per le acciughe e le sardine: è a maglie molto fitte e si calava
perpendicolarmente alla corrente, disposta verticalmente. Si usava unendo tre
pezzi da 100 metri, tenuta un braccio (circa due metri) sott’acqua con sugheri
cui era legata una sagola di due metri. I sugheri erano posti ogni 5 braccia.
La rete era recuperata da poppa della barca e lo faceva un solo uomo che
riceveva spesso il cambio essendo un lavoro faticoso. Gli altri nel frattempo
recuperavano il pesce uno alla volta togliendolo dalla maglia della rete.
Analoga alla Manate è il “Tremaglio”, costituito da tre reti, di cui le due
esterne hanno le maglie da 15 centimetri, mentre l’interna le ha da 3
centimetri. I sugheri sono posti ogni mezzo metro in alto. Mentre in basso vi
sono i piombi, ogni 20 centimetri, pesanti 30-50 grammi. Era usabile da un solo
uomo: si lasciava in mare da 8 a 12 ore, specie la notte e raccoglieva tutto,
anche pesci grossi, attratti dai pesci piccoli già nella rete piccola e quindi
presi a loro volta nella rete a maglie grandi.
La “Sciabica” veniva usata per la frittura e
per bianchetti. Veniva calata da una barca partendo da terra dove veniva
lasciata in custodia l’estremità di un cavo; la barca si allontanava calando la
rete fino al sacco (Manega) a maglie
fittissime. Quindi la barca tornava a terra con l’estremità dell’altra cima3, non
molto distante da dove era stata lasciata la prima. A questo punto si iniziava
a tirare le due cime avvicinando le due estremità: all’operazione prendevano
parte dei volontari presenti sulla spiaggia, disoccupati sfaccendati ed
ubriaconi che nello sforzo a volte cadevano e si conquistavano il nome di “Straccioni
da sciabica”4.
Esisteva
una sciabica piccola, detto Rastellin5 che veniva utilizzato con le stesse modalità
ma lontano dalla riva, da due persone su una barca, traversata6 e tenuta con un ancorotto7 dal bordo opposto. Terminata la pesca, le reti
venivano fatte asciugare, possibilmente stendendole sulle pietre della
spiaggia (a).
Nel periodo in cui la spiaggia era molto
ridotta (prima degli anni Sessanta del secolo scorso), venivano stese anche sul
marciapiede di corso Italia, ma sulle pietre asciugavano meglio perché l’aria
circolava tra le pietre. Il loro trasporto veniva fatto con una carretta o,
parlando del passato, con una portantina (Scaletta)
fatta da due assi con quattro o cinque traverse. Periodicamente le reti
venivano fatte bollire in acqua dolce con cabraccio8 e scorza di pino macinata che le tingeva e le
liberava dalle muffe. Quest’operazione veniva svolta sulla spiaggia con un
calderone posto su un fuoco: più recentemente, usando le reti di nylon, tale
azione non era più necessaria. In passato era usato il cotone, ma nel caso
delle corde si usavano altre fibre: per i cavi da recuperare manualmente si è
usata per secoli la lisca (Ampelodesmos
Mauritanicus), perché fornisce una corda molto morbida.
I lumi erano ad elettricità, funzionando con
piccoli gruppi elettrogeni: in passato erano lampade ad acetilene, fornita di
carburo. L’attrezzatura per la pesca era tenuta in magazzini posti sotto casa (Masanghin) ove talvolta erano presenti
anche animali da cortile. Dopo le prime demolizioni del Borgo (fine Ottocento)
per l’apertura di via Casaregis, i magazzini furono sistemati nei locali
negozio di via Cravero (palazzo d’angolo con via Morini).
Le barche erano di forma che oggi è
scomparsa: il “dritto di prora” e il “dritto di poppa”, se non c’era il motore,
erano a rientrare. Questo tipo era diffuso in tutta la Liguria ai primi del
Novecento, come si vede nelle fotografie dell’epoca. Quando iniziarono a comparire
barche con la “prora dritta” (o prominente), furono classificate come catalane, cioè straniere (o di
importazione): infatti localmente si continuava a costruire all’antica come i
gozzi per le regate. Sulla barca madre a motore, si portavano quattro remi,
anche se gli scalmi9 erano sei,
una pompa manuale d’esaurimento, l’ancorotto e almeno un salaio per il recupero
del pesce. Quando non si pescava le barche erano tratte in secco10 tramite un verricello11 azionato a mano: era in legno, ed era
costruito da un falegname locale. Aveva un grosso asse verticale in olmo su cui
si arrotolava il cavo di alaggio12. Veniva azionato a mano,
spingendo su una lunga asta che attraversava l’asse: più uomini giravano l’asse
spingendo sull’asta. Prima dell’introduzione del motore le barche andavano a
remi o a vela. La vela, dalle foto d’epoca, era di tipo latino13 con un albero che poteva essere inclinato
verso prua e un picco14 in cui era inserita la vela. Il picco, quando
la barca era ferma o in secca, veniva calato e serviva a reggere una tenda di
copertura della barca.
Nei paesi della Riviera, più grandi del
Borgo della Foce, l’attività era un po’ diversa: per esempio, i pescatori di
Santa Margherita si spingevano a remi o a vela fino alle acque della Foce
dormendo a bordo: portavano un fornelletto per cuocere il pesce. A Boccadasse,
prima della Seconda Guerra Mondiale, il ricavato della vendita era diviso in
modo diverso: una parte per gli attrezzi, una per il padrone della barca e tre
da dividere tra i pescatori, ma nella buona stagione la paga poteva essere
settimanale anziché di tipo compartecipativo, perché andavano a pescare fino a
Framura o fino in acque francesi, rimanendo in mare vari giorni.
NOTE
(a cura di Francesco Boero)
1)
L’unità di misura detta “Braccio” (in inglese Fathom) è di mm. 1829.
2)
Tipo di cima di piccolo diametro.
3)
Nome generico di un cavo navale. A bordo è gradito l’uso del termine “cima”;
solitamente viene chiamato “corda” quel pezzo di sagola intrecciato al
battaglio della campana.
4)
In Genovese, singolarmente Stasson da
sciàbega.
5)
In Italiano “piccolo cancello”.
6)
Posizionata perpendicolarmente alla direzione della corrente.
7)
Ancora di piccole dimensioni e talvolta di particolare fattura.
8)
Il termine usato dall’autore non si capisce che tipo di sostanza sia.
9)
Pezzo di ferro o di legno robusto che infilato in un foro nel bordo della barca
serve con l’ausilio di un anello di corda (stroppo) ad azionare il remo.
10)
Azione che porta la barca fuori dall’acqua: normalmente si dice “alaggio”.
11)
Verricello: meccanismo costituito da un tamburo, girante intorno ad un asse
orizzontale, sul quale si avvolge il cavo. Argano: stesso meccanismo, ma ad
asse verticale.
12)
Cavo che serve per tirare in secco la barca tramite il verricello e l’argano.
13)
Vela latina: vela triangolare. Vela aurica: vela trapezoidale.
14)
Pennone superiore che regge la vela e che normalmente è libero di scorrere su
l’albero.
(a cura di Rosa Elisa Giangoia)
a) dalla tecnica di produzione con filato e nodi delle reti da pesca è derivato il lavoro femminile del pizzo a filet con il modano: http://www.fioretombolo.net/filet.htm. Questa tecnica è oggi caduta in disuso, sostituita da quella con l'uncinetto.
(a cura di Rosa Elisa Giangoia)
a) dalla tecnica di produzione con filato e nodi delle reti da pesca è derivato il lavoro femminile del pizzo a filet con il modano: http://www.fioretombolo.net/filet.htm. Questa tecnica è oggi caduta in disuso, sostituita da quella con l'uncinetto.
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