sabato 13 giugno 2015

EDOARDO FIRPO, ’O POETA DE-A FOXE (Il poeta della Foce)

                                                                                                                               di Benito Poggio



Fiore in to gotto                                            Il fiore nel bicchiere

Gh’èa un çè frèido e lontan                                          Il cielo era freddo e lontano
de dato a-o bosco instecchio,                          sopra al bosco isterilito,
ma in ti ciànelli zà verdi                                    ma sui pianori già verdi
s’avrivan i colchici lilla;                                     germogliavano i fiori azzurrini;
ai pè de qualche muagetta                                            ai piedi di qualche muretto
spuntava a primma viovetta.                             spuntava la prima violetta.
Campann-e vegnivan a sciammi                                   E le campane rintoccavano
da-e lontananze di monti,                                             in lontananza dai monti,
da-i orizonti di anni,                                         dagli anni ormai trascorsi,
quande me paiva che o mondo                        allorché mi sembrava che il mondo
nasciuo o fosse con mi.                                                fosse proprio nato con me.
Aegue de primmaveja                                      Acque primaverili
sott’a-e rammette fiorie,                                               sotto i rametti in fiore,
comme me paiva che alloa                                           come mi pareva allora
cantasci solo pe mi!                                         che gorgogliaste soltanto per me!
Oh carovane de nuvie                                      Oh masse di nuvole
calme ai tramonti in sce-o mà                           quiete nei tramonti sul mare
e contemplae dietro a-i veddri,                        e contemplate dietro ai vetri
quanto m’éi faeto pensà!                                             quanto mi avete fatto rimuginare!
Me mèue Odisseo in te l’anima:                                   Mi muore l’Ulisse che è in me:
pe sempre cazze a mae veja:                            la mia vela si ammaina per sempre:
ritorno sens’ese partio.                                    ritorno ancor prima d’essere partito.
E òua me lascio portà                                      Ed ora mi lascio trasportare
e navego comme in te un fjord                         e navigo come fossi lungo un fiordo
da l’aegua morta e profonda                            dove l’acqua è calma e profonda
in t’unna taera do nord.                                               in un lontano paese del nord.
Malinconia                                                      Malinconia,
comme ciù fito deo tempo                                           tu distruggi le vicende del mondo
ti desfi e cose do mondo!                                            ancor più velocemente del tempo!
Ma e primmaveje ritornan                                           Ma le primavere fanno ritorno
e mi rinascio con lò.                                         e anch’io rinasco con esse.
Son comme o fiore in to gotto                          Sono come il fiore nel bicchiere
che mentre u mèue cianin                                             che mentre muore poco a poco
pe ogni sò che ritorna                                      ogni volta che c’è un po’ di sole
o se repiggia un pittin.                                      riprende un poco di brio.

La poesia che ho appena citato (e da me resa in italiano senza pretese di precisione, come tutte le altre qui riportate), fu pubblicata a Genova oltre ottant’anni fa, nel 1935, dall’editore Emiliano degli Orfini, nella raccolta omonima ed era preceduta da una prefazione di Eugenio Montale, il quale esprimeva, pur parco di elogi com’era per natura, lode e apprezzamento per la felice ispirazione di Firpo, per l’inconsueto equilibrio di espressione e per la sua particolare misura di linguaggio. Tutti possono cogliere quell’inizio così piano e colloquiale, ma così denso di senso poetico soggettivo (perché è il poeta che tale lo percepisce) e nel contempo universale (perché ogni lettore e tutti noi lo percepiamo così col poeta):

“Gh’èa un çè frèido e lontan”                           C’era un cielo freddo e lontano,

cielo freddo e lontano che, come una pesante cappa, si contrappone o meglio, si bilancia, quaggiù, sulla terra col

“bosco instecchio”                                          un bosco isterilito, sparso di radi arbusti rinsecchiti:



sono due versi che creano, già nella prima strofe, un’atmosfera così grigia e desolata, così triste e madida di spleen (qui per: insoddisfazione e malessere) che fa ancor più risaltare “i ciànelli zà verdi, i colchici lilla”  (i pianori verdi, i fiori azzurrini)e soprattutto “a primma viovetta” (la prima violetta) che, timida e profumata, fa capolino tra l’erbe dei “ciànelli zà verdi” (i pianori già verdi). E la metafora naturistica – da non ritenersi una forzatura del critico – richiama anche da un lato l’epoca oscurantista del fascismo, e dall’altro si fa resistente speranza di rinnovamento politico. E quanta forza culturale sta racchiusa in quella citazione di “Odìsseo”, cioè l’Ulisse viaggiatore che osa dantescamente l’inosabile, e che fa sprigionare nel poeta un desiderio di viaggiare, già abortito però ancor prima di partire:

“ritorno sens’ese partìo”                                              son già qui di ritorno prima ancora di essere partito.

Anche in Liguria in rosso c’è un suggestivo richiamo nel verso che dice:

“ch’o l’a d’Ulisse a forza”                                           che è forte e intrepido come Ulisse.

Viene naturale, se non accostare, ripensare anche soltanto all’ulissismo di Saba e al suo environment provinciale. D’altronde Firpo, se pure in gran parte autodidatta e se pure, grazie all’uso del dialetto, preservato dalle influenze dirette e dai contatti immediati con le correnti in auge (dal Crepuscolarismo al Futurismo e all’Ermetismo) legge, e legge molto: legge Petrarca annotato e chiosato da Leopardi: quel Leopardi che è l’autore che su tutti Firpo predilige e dal quale indubbiamente assorbe – è una mia convinzione personale – una certa linea idillica e un certo lirismo malinconico uniti, consapevolmente, a una peculiare inclinazione alla meditazione solitaria e a elementi rappresentativi della realtà; legge, e con estrema partecipazione, la letteratura novecentesca (e se ne colgono aliti e respiri sparsi in tutta la poesia firpiana); e legge D’Annunzio, il cui influsso – questo sì – qui e là si coglie così come, in certe espressioni in campo linguistico-botanico, si coglie un sapore pascoliano e finanche gozzaniano; nella sua giovinezza, inoltre, non aveva mancato di accostarsi a Verlaine, Rimbaud e ad altri poeti decadenti. E il tocco della “malinconia” (lo spleen, cioè l’insoddisfazione e il malessere di tanti e tanti poeti, qui perfino addolcita dalla pronuncia dialettale che rende ancor più lieve quella che era stata definita ninfa gentile da Ippolito Pindemonte), quel tocco insorgente dalla “malinconia”, qui usata qui come parola singola, isolata a fare verso a sé stante, intacca il tempo e la realtà, ma – per fortuna, dice il poeta – non intacca (senza dimenticare la metafora su accennata) la primavera, stagione che, ogni volta che ritorna, lo fa rinascere, dandogli quel “pittin” di vita, quel briciolo di ripresa vitale che il tiepido raggio di sole primaverile riesce ancora a dare anche e perfino al fiore senza vita perché reciso e messo lì “in to gotto” (nel bicchiere), posato sul tavolo o sul davanzale, non per dargli l’illusione o la sensazione di vivere, quanto per aiutarlo (una sorta di eutanasia lirica) a morire “cianìn cianìn” (a poco a poco), un pochino alla volta, quasi senza rendersene conto. A mio parere, se Edoardo Firpo avesse scritto anche solo quest’unica poesia, sarebbe da considerare un grande lirico. In essa già si percepisce, e nettamente, tutta l’emancipazione che, lentamente ma saldamente, conquisterà da canzonette e stornellate, da filastrocche e trallaleri, ma anche dalle parlate paesane e dai gerghi rionali. Qui, e non solo qui, il dialetto – lo si coglie d’acchito – non è più né succubo né subalterno alla lingua: è già ricco e temprato a dire di nuove tematiche, è già ricco e temprato al punto che consente alla dialettalità tutta interiorizzata di Firpo di esprimere la propria pena di vivere e l’altrui faticosa esistenza. Edoardo
Firpo, com’è noto, nasce a Genova, in Piazza Colombo al n° 26 (e, se non ricordo male, c’è una targa che lo commemora) il 20 aprile 1889 (un anno dopo, ad esempio, di Giuseppe Ungaretti e Thomas Stearns Eliot) da una famiglia della modesta borghesia e conduce una vita altrettanto modesta dedicandosi al mestiere poco redditizio (lo sosteneva lui a ragione giacché visse sempre in disagiate condizioni), cioè il mestiere di accordatore che eredita dal padre. E del resto, né poetare (“carmina non dant panem”) né accordare pianoforti delle scuole comunali genovesi poterono farlo vivere nel benessere. Ma Firpo ha, in qualche misura, la musica nei suoi lombi: egli è il pronipote in via materna (la madre si chiamava Gemma Arata, il padre anch’egli Edoardo) del famoso violinista Camillo Sivori (al quale Nicolò Paganini consentì venisse fatto dono della copia del suo “Guarnerius” effettuata dal liutaio Vuillaume e custodita dal Comune di Genova, al quale lo stesso Sivori lo donò); e, grazie alla (o in forza della) sua sensibilità, Firpo riuscirà a sentire perfino la musica dell’erba, come scrive nei tre versi finali di Idillio:

“...mentre da l’erba vegne un son sotti,             ...mentre dall’erba si leva un suono flebile,
a muxica che sento a l’è tanto ata                                 la musica che sento è così sonoramente alta
che no çerco ciù ninte intorno a mi...”               che non cerco più nulla tutt’intorno a me...

E nei Diari, siamo nel 1939, annota:

“Hai abbastanza musica nell’anima
perché tu possa chiedere dov’è la primavera?”

e poco sotto musica e colori insieme, sentite:

“Due notte                                                      Due semplici note
o seren do çè                                                  l’azzurro del cielo sereno
e o verde de l’erbe.”                                       e il tenero verde dell’erba.

Fin da giovane si dedica altresì alla pittura (come pastellista dilettante; non si dimentichi che Firpo aveva frequentato l’Accademia Ligustica di Belle Arti), si dedica al teatro (scrive alcune commedie in dialetto rimaste inedite, una sola – Fèua de scheuggi – viene rappresentata nel 1922 a Genova, al teatro del “Giardino d’Italia”. (1922: annus mirabilis per la letteratura, annus horribilis per la politica italiana!). A posteriori, l’8 ottobre 1954, Firpo annoterà nei Diari: “Ho esperimentato, in venti anni di fascismo, quanto una semplice idea di verità e di giustizia, sia più dura a difendersi che tutto un sistema filosofico”; ma Firpo, durante il ventennio, si dedicherà soprattutto alla poesia in dialetto. Ed ecco in proposito il Firpo-pensiero: “Scrivo in dialetto perché è il mio mezzo espressivo più congeniale, perché sento in lingua genovese – In ra lamgua zeneize –, perché le pietre, le torri, il mare, il vento tra i pini mi parlano in genovese”. Nel 1906, a diciassette anni, dopo un corso di studio alquanto stentato e faticoso, era pervenuto alla “Licenza tecnica” presso la Regia Scuola “G. Baliano”, ottenendo la votazione, tutto sommato discreta, di 81/120. Non molti, amante della solitudine qual era, gli amici fidati della sua vita; tra essi ricordo Giovanni e Guido Sechi (tradurranno in lingua italiana le sue poesie dialettali), Adelchi Baratono (di cui seguirà un corso di Filosofia dell’arte), l’uomo di lettere e combattente nella Resistenza Mario Zino (ch’io conobbi come docente di Lettere al Liceo Classico “Calasanzio” di Cornigliano), i pittori Gagliardo (Helios e Salvatore) e Lombardo (Luciano, Pietro e Riccardo), gli xilografi Mimmo Guelfi e Carlo Ferrari, l’avvocato C.M. Brunetti e l’uomo politico Domingo Solari; e dopo la guerra 1915-’18 stringerà amicizia con Ivo Rubini, fondatore del Circolo Culturale “All’insegna della Tarasca” di cui Firpo fece parte e che pubblicherà  ‘O grillo cantadò.
Ha l’opportunità di fare la conoscenza di Guido Gozzano durante il suo soggiorno a Genova dal 1907 al 1914; e in seguito anche di Camillo Sbarbaro e di Eugenio Montale. Tra disagi e ristrettezze, proprio com’era vissuto, Firpo morì la sera del 10 febbraio 1957 all’Ospedale di San Martino ove si trovava ricoverato dai primi del mese per apoplessia. Firpo riposa nel cimitero di Sant’Ilario, proprio vicino ad uno dei suoi rari ma cari amici, quell’Adelchi Baratono filosofo e docente di filosofia teoretica all’Università di Genova e deputato per il Partito Socialista, del quale, come detto, Firpo aveva seguito un corso di Filosofia dell’arte: nel 1946, un anno prima della sua morte, Baratono pubblicò il libro Arte e poesia, amato da Firpo e che fu da lui letteralmente divorato. Quando Firpo morì, teneva gelosamente con sé Rerum Vulgarium Fragmenta ovverosia, le Rime (sparse) di Francesco Petrarca. Fu religioso? Fu ateo? Certamente, e lo si legge in Ciammime un po unna mattin, visse nel costante antigo dubbio tra fede e ateismo:

“saià proprio veo che un giorno                                   ma è proprio verità che un bel giorno
s’asmortià tutto pe mi?”                                               tutto non avrà più vita e si spegnerà per me?

Dubbio che si fa vera e propria angoscia interiore in Ai martiri di Cravasco, là dove il poeta si interroga:

“Perché in te grandi ingiustizie                          Perché quando si compiono grandi ingiustizie
Dio o l’è sempre lontan?”                                            Dio è sempre assente e così lontano?

che non può non richiamare l’interrogativo di Primo Levi che si chiedeva “Dov’era Dio ad Auschwitz?” Al suo funerale sarà il sindaco di Genova, Gelasio Adamoli, a pronunciare l’orazione funebre. Sul piano politico Firpo s’era accostato, forse anche per influsso del Baratono, all’ideologia socialista, prese a collaborare all’edizione ligure dell’Unità e finì per iscriversi al P.C.I. presso la sezione “Tito Nischio” (in Corso Torino, 56) de-a Foxe, quartiere da lui più volte dipinto con un certo rimpianto per la Genova che lui cantava: la Genova della memoria antica e della sua infanzia:

“donne foxanne                                                           donne della Foce
sempre desbandellae”                                      sempre scollacciate.

Firpo, o poeta de-a Foxe, parla direttamente del suo quartiere e descrive in musicali versi realistici le bande di allegri monelli della Foce, male in arnese e coi capelli arruffati, nella lunga composizione  “A festa de San Giambattista” (La festa di S. Giovanni Battista) allegata in chiusura nella traduzione di Carlo Cormagi, ma di cui riporto qui, tradotte da me, solo alcune strofe frizzanti e cariche di insolita vivacità e sentimentale rimpianto per la bella età infantile:

“Ancon me pâ de veddive                                           “Mi pare di vedervi ancora
belli figgêu da Foxe,                                        bei monelli della Foce,
chêutti, rostii da-o sô,                                      abbronzati e arrostiti dal sole,
a strêuppe, mezi nui,                                        in bande, mezzi nudi,
tutti desbandelae.                                                        tutti male in arnese,
coa testa asberuffâ,                                         coi capelli arruffati,
quande sott’ai barcoin                                     quando sotto le finestre
ve metteivi a cantâ…                                       cantavate a squarciagola

…                                                                   …

Belli figgêu da Foxe                                         Bei monelli della Foce
a m’è restâ in te l’anima                                               m’è rimasta in fondo all’anima
a vostra fresca voxe!...                                    la vostra voce fresca e squillante!...

E quando Firpo  si dedica alla poesia – quella dialettale, ma non solo – siamo, come ricordato, nell’ora buia del Fascismo e il Min.Cul.Pop. si mostra ostile nei confronti del dialetto, inteso come elemento inquinante dell’italianità e della purezza della razza; ed è anche l’epoca dei movimenti opposti e contrapposti del tradizionalista e rural-paesano “Strapaese” (attorno a “Il selvaggio”, 1926-’43, diretto da Mino Maccari e a “L’Italiano”, 1926-’42, diretto da Leo Longanesi) e dell’internazionalista e modernista “Stracittà” (attorno a “Novecento”, 1926-’29, diretto da Massimo Bontempelli). Entrando nello specifico, il dialetto che Firpo usa e legge poeticamente, assaporandolo, sia pure con pudore e parsimonia, nelle sue mille e mille sfumature e nei suoi plurimi effetti coloristici, dotandolo altresì di ritmi e musiche agili e morbide, ma non sempre facili e immediate, è ben lungi dall’eloquio di tutti i giorni e non solo è considerato, ma è – di Franco Fortini la definizione – “una voce agra e fine della poesia ligure del Novecento” da leggersi “accanto a quella dei suoi conterranei poeti in lingua”, Camillo Sbarbaro (1888-1967) ed Eugenio Montale (1896-1981) su tutti. Come poeta dialettale è certamente il più grande in questo secolo e in lui si concentra tutta una lunga tradizione di poesia dialettale legata alla rude e dolcissima terra ligure che annovera, tanto per risalire nel tempo e citare qualche nome, i trovatori Lanfranco Cigala, Percivalle Doria e Simone Doria; nel XVI secolo Paolo Foglietta; nel XVII secolo Gian Giacomo Cavalli; nel XVIII secolo Steva De Franchi; Martin Piaggio e Nicolò Bacigalupo nel XIX secolo; Carlo Malinverni e Edoardo Firpo, appunto, nel XX secolo. Quel Firpo che, come afferma lo studioso e critico Bruno Cicchetti, “non risente né delle parlate rionali né del folclore regionale... pur attento alle sorgenti degli étimi del genovese antico e del provenzale”. Ed è solo nel Novecento che la poesia ligure (che nel Seicento aveva visto emergere il savonese Gabriello Chiabrera, 1552-1638, con Odi e Anacreontiche) acquista un’importanza veramente di primo piano nel contesto nazionale con tutta una serie di poeti fra i quali – e ho già ricordato che Firpo li conobbe – Sbarbaro e Montale (l’iniziatore di quella che è, chi dice impropriamente, definita “linea ligure” sarà Ceccardo Roccatagliata Ceccardi, 1871-1919; e uno dei padri è considerato quel Mario Novaro, 1868-1944, direttore di “La Riviera Ligure”): questo per la poesia in lingua; per la poesia dialettale invece, come detto, è Firpo l’erede della lunga e secolare tradizione di poesia in dialetto ligure, ma nel nostro secolo, proprio grazie all’asprigna levigatezza dei suoi mezzi espressivi, ne diviene l’esponente più importante e significativo. E nella sua poesia si riscontrano i segni distintivi delle sue attività collaterali: musica e pittura; in essa è presente un forte senso di musicalità, indubbiamente acquisito anche dal suo mestiere di accordatore; e, pur se tenui o attenuati, comunque mai vivi e sgargianti, sono presenti sovente i colori (e proprio non la dobbiamo dimenticare la sua attività di pittore e più propriamente di pastellista; attività alla quale si dedicò lo stesso Montale). Accordatore di professione s’è detto, come il padre, Firpo non sa però accordarsi al regime fascista, e viene perseguitato per questa sua netta opposizione al fascismo fino ad essere, nel corso dell’occupazione tedesca, incarcerato. La causa scatenante una lettera scritta da Firpo al cugino e che viene intercettata dalla censura: contiene male parole avverso Mussolini e commenti satirici sul nazifascismo e sulla sua imminente caduta; è per questo che l’Ufficio Investigativo ne decreta il fermo immediato il 10 gennaio 1945 e l’Ufficio Politico della Guardia Nazionale Repubblicana ordina la perquisizione della sua casa proprio in via Casaregis: messa a soqquadro, viene trovato solo il Diario: in mancanza d’altro anche quello serve per accusarlo. Recluso nella IV Sezione del carcere di Marassi e destinato alla deportazione, il 4 aprile 1945 subisce un duro interrogatorio alla Casa dello Studente, sede del Comando delle SS di Genova, trasformata in un vero e proprio luogo di tortura. Un compagno di cella, mentre Firpo viene condotto via, gli urla dietro: “e digghe che t’e un poeta!” (chiariscilo che sei un poeta!), convinto forse che una tale dichiarazione avrebbe potuto evitargli guai peggiori. Invece proprio quella dichiarazione fa saltare su tutte le furie il maresciallo delle SS che lo interrogava, che arriva a percuoterlo violentemente. Prima di essere incarcerato nel corso dell’occupazione tedesca, esattamente “unna mattin de ottobre do ‘41” (una mattina dell’ottobre del 1941) aveva composto una sorta di “pasquinata” densa di spirito satirico antiteutonico: un invito lanciato, più che rivolto, “a-o Balilla” (a Balilla), un testo tutto da gustare:

A-o Balilla                                                       A Balilla
(unna mattin de ottobre do ‘41)                                   (in una mattinata dell’ottobre del 1941)
“Un amigo o m’à dito stamattin                                    (Un amico m’ha raccontato che proprio                                                                                                                                                   stamattina
che passando d’in Ciassa Pammaton,                passando da Piazza Pammatone,
o l’ha visto da gente un po ammuggià               ha visto una piccola folla di persone accalcate
ch’a ciacciarava e a rieiva cian cianin.              che malignavano e ridevano cautamente.
Piggiòu da-a cuiositae o l’à domandòu                         Preso da curiosità, il mio amico s’è informato
e o l’à sapùo che appenn-a da un momento                 venendo a sapere che pochi istanti prima
l’èa staeto levòu da-o monumento                               dal monumento era stato rimosso
un cartello che gh’ea scrito coscì:                                 un cartello con su scritto:

- Mescite, vegni zù, son torna chi.”                              - Datti una mossa, rifatti vivo, sono di nuovo                                                                                                                                                            qui.)

E davvero quel verso di chiusura che condensa ed esplicita tutto l’antifascismo e l’antinazismo, e spinge ad una sollevazione popolare come quella di due secoli prima, racchiude in sé la stessa forza icastica ed esortativa di “che l’inse”, restituendo l’appropriato valore storico-semantico anche al termine fascistizzato di “balilla”. Una sera di maggio del 1938 il nostro aveva riportato nei suoi “Diari” una lunga riflessione che si concludeva così:

“Sarà una tragedia?
Mai come oggi mi sono sentito così davanti all’ignoto.
Le mie previsioni sono luttuose, mi pare di vedere un cielo rosso di rovine.
Sento il rombo di un cataclisma.”

Presentimento poetico e profetico.
E 'O fiore in to gotto (Il fiore nel bicchiere) può essere letto metaforicamente come il prigioniero (e lui lo era stato!) che muore un pochino ogni giorno, che ad ogni raggio di sole che entra nella cella in cui è prigioniero si riprende dal suo pessimismo e spera, un po’ di più ogni giorno, nella vita, nel cambiamento del momento politico e forse nella libertà. Dice di lui proprio Eugenio Montale: “(Firpo) fu l’interprete dell’aspetto laborioso e fervido della sua città; il cantore temperato e medio (che non vuol dire mediocre) di quella piccola borghesia genovese che molto ha dato senza nulla chiedere alla patria comune e che porta nel sangue il gusto della tradizione e l’istintiva fiducia nell’avvenire”. Lo ritengo, questo giudizio di Montale, veritiero non solo come inquadramento dell’uomo-poeta, ma anche come giudizio del suo sentimento poetico. S’è già detto della raccolta ’O fiore in to gotto (Il fiore nel bicchiere) del 1935: in essa si va dalla malinconia che permea la raccolta anche se velata e non plateale, alla precisione linguistica e, pur se fatto di particolari e di piccole cose, specialmente all’amore, sentito e intenso, per la natura: anche permeata in una intuibile metafora di sapore politico. Quattro anni prima, nel 1931, per le edizioni genovesi curate dagli stessi amici liberali del “Circolo della Tarasca” (di cui, già l’ho detto, fece parte), era uscito O grillo cantadò (Il grillo canterino), ove si incontrano e si ritrovano tutti i tratti lirici appena descritti (la silloge sarà pubblicata successivamente da Einaudi: nel 1960 la prima edizione e nel 1974 la seconda edizione). Dal 1935, l’anno di ’O fiore in to gotto (Il fiore nel bicchiere), si supera il periodo bellico e nel 1946 esce, per i tipi della Libreria Internazionale Di Stefano a Genova, “A vea scoverta de l’America” (La vera scoperta dell’America); nel 1954 l’editore Sciascia di Caltanissetta pubblica, su sollecitazione di Leonardo Sciascia, “Ciammo ’o martinpescou” (Chiamo il martin pescatore) e qui la sua parabola tocca il punto più alto di quel sentire poetico di cui abbiamo detto, sempre – a mio avviso – sotteso da una leggibilissima metafora di sentore anche politico com’era il suo desiderio di libertà:

Ciammo ’o martinpescou ch’o porte l’oa    Chiamo il martin pescatore che porti l’ora
“...de belle aegue nette                                    “…delle belle acque pure
quande co becco affiòu pa ch’o fraccasse                    quando col becco affilato pare che frantumi
un spegio de cristallo,                                      uno specchio di cristallo,                                         
ma o canto malinconico do gallo                                  mentre il canto malinconico del gallo
in mezo a-a nèutte o pà                                               nel bel mezzo della notte risuona
un crio ch’o se perde in mezo a-o mà...                       come un grido che si perde in mezzo al mare
Sento posame in sce-a lontann-a sponda                     Mi rivedo riposare sulla riva lontana
vixin a-o nonnu ai giorni sensa schèua,             vicino al nonno nei giorni senza scuola,
e o canto che sentivo in lontananza                              e quel canto che ascoltavo da lontano
zà fin d’alloa o me strenzeiva o chèu.               già allora mi stringeva il cuore.
Chi ghe l’aveiva dito a-o chèu piccin                            Chi mai aveva suggerito al mio cuoricino
che o tempo o xèua?                                       che il tempo vola?
e chi a dubità de l’avvegnì?...                           e chi deve dubitare del futuro?...
A caravella ch’a batteiva o mà                         La caravella che solcava il mare
a sperava de vedde un’atra sponda,                            ambiva a veder l’altra riva,
ma a chi in to tempo navega                             ma per chi naviga nel tempo
ogni staggion l’è un’onda                                             ogni stagione rappresenta un’onda
verso o silenzio d’unna riva morta.                               verso il silenzio d’una riva morta.
E mi che intanto navego                                               Ed io che intanto navigo
mentre che l’onda a franze,                                          mentre l’onda si infrange,
ciammo o martinpescòu ch’o porte l’òa                       chiamo il martin pescatore che porti l’ora
de belle aegue nette                                         delle belle acque pure
quande co becco affiòu pà ch’o fraccasse                    quando col becco affilato pare che frantumi
un spegio de cristallo.”                                                uno specchio di cristallo.”

Firpo è poeta semplice e naturale, quasi istintivo ed è per questo che i suoi versi non perdono, neppure oggi ad anni di distanza, né genuinità né attualità, sia che egli si esprima col sorriso, sia che egli esterni la sua malinconia, come ad esempio in L’aegua ata:

L’aegua ata                                                   L’acqua alta
“O mignin morto l’ò cacciòu in mà                               “L’ho cacciato in mare il micino morto
vixin a-o ciaeo de lunn-a;                                            vicino al chiaro di luna;
l’ò visto destaccase a poco a poco,                             l’ho visto allontanarsi poco a poco,
mettise in viaggio verso l’aegua ata.                             mettersi in viaggio verso l’alto mare.
Povou mignin, me s’astrenzeiva o chèu;                       Povero micino, mi si stringeva il cuore;
posou in sce un fianco o pàiva un cavallin                     adagiato sul fianco sembrava un cavallino
de legno pe-i figgèu...                                      di legno per bambini
in gio se gh’aççendeiva de stellette                               sbrilluccicava tutt’intorno al punto
che de continuo ne luxiva o mà…                                che senza sosta risplendeva il mare…
poi                                                                  poi
l’ò lasciòu solo a navegà in ta nèutte...”                        l’ho lasciato navigare in solitudine nella notte…”

Attorno a quel gesto iniziale che pare crudele – “O mignin morto l’ò cacciòu in mà” (L’ho cacciato in mare il micino morto) – e a quel verso centrale – “Povou mignin, me s’astrenzeiva o chèu” (Povero micino, mi si stringeva il cuore) – è facile intuire l’amore di Firpo per gli animali e la natura; quella natura che costituisce  il suo ambiente ideale, quello più confacente al suo desiderio di solitudine: “o mignin morto” (il micino morto) può suonare metafora del suo animo che, in piena solitudine, naviga nella “gibigiana” metamorfosàtosi in

“un cavallin                                                      un cavallino
de legno pe-i figgèu”:                                       di legno per bambini…”

evidente rimpianto dell’infanzia. E nelle sue scampagnate “foris portas” si reca quasi sempre da solo, o meglio in compagnia di D’Annunzio (Alcyone), Montale (Ossi di seppia), Ungaretti (Allegria di naufragi) e ancora Saba, Leopardi, Dante e Petrarca: sono gli autori i cui libri riempiono il suo zaino al posto del cibo che è invece ridotto al minimo. I temi della poesia firpiana sono stati accennati; éccoli, comunque, qui riassunti:
- il ritorno gioioso della primavera (lui le sente al plurale: “ ’e primmaveje ritornan” (le primavere ritornano) dice e ripete, pensando anche al dopo-dittatura, in “ ’O fiore in to gotto” (Il fiore nel bicchiere); e c’è un verso nei Frammenti che suona così:

“A primmaveja a salva sempre o mondo”;                   “La primavera è sempre la salvezza del mondo

- il calare della malinconia e dell’età, come nelle tre poesie che leggiamo di seguito:

Novembre                                                     Novembre
“Malinconia de seje novembrinn-e                               “Malinconia delle serate novembrine
quande nisciun  ciù passa                                             quando non passa più nessuno
pe-e stradde montagninn-e;                             per le strade di montagna
e cièuve e cièuve lento                                     e piove e piove lentamente
in sce-e erbe assuppae,                                               sulle erbe che si inzuppano,
e pà che cianze o vento                                               e pare che il vento pianga
in sci avansi da stae.”                                       sui rimasugli dell’estate.”

Dixeiva a mae besava                                              Diceva la mia bisavola
 “Dixeiva a mae besava                                               “La mia bisavola diceva
- rangotan d’unna vegetta -                                         - vecchietta borbottona -
che i vegi èn comme stanchi pellegrin               che i vecchi sono come pellegrini affaticati
tutti diretti verso o camposanto:                                   diretti tutti verso il cimitero:
e ciù son vegi e ciù ghe son vixin.                                 e quanto più son vecchi tanto più vi son vicini
- E mi – a dixeiva – poi che son stravegia,                   - Ed io – aggiungeva – poiché sono stravecchia,
e son tosto soti comme unna nègia,                              e sono sottile quasi come un’ostia,
son zà là da-i rastelli e tegno in man                             son già là vicino ai cancelli e ho in mano
l’anello, e se me vegne de stranuà,                               l’anello, e se mi viene da starnutire,
daggo un streppon, reciocca o campanin,                    do uno strappo, rintocca il campanile,
te me vegnan a-arvi e me fan intra.”                             vengono ad aprirmi e mi fanno entrare.”

Solo unna votta ti passi                                Passi solo una volta
“A zoventù a me canta                                     “La gioventù canta per me
sempre un po ciù da lontan,                             sempre più da lontano,
e, malinconica riendo,                                      e, ridendo malinconica,
a me saluta coa man.                                       mi saluta con la mano.
Fin che no-a perdo de vista                                         Fino a che non la perdo di vista
me pa d’avèila con mi,                                     mi pare di averla con me,
ma un malinconico addio                                             ma anch’io dovrò darle
avio da daghe mi ascì.                                     un addio malinconico.
Comme a chi lascia de nèutte                           Come chi lascia di notte
Zena partindo pe ma                                       Genova partendo per mare
finn-a ch’o vedde a Lanterna                           fino a quando intravede la Lanterna
o se pèu ancon consola.                                              prova ancora un po’ di conforto.

- altro tema: la speranza in un futuro migliore e più libero attraverso il bimbo innocente che sprizza gioia e sparge serenità contagiando chi gli sta vicino, come nei versi:

“O visto l’ommo andà da-o sò piccin,              “Ho visto il papà  avvicinarsi al suo bambino
piggiàselo in te brasse un po d’asbrio               prenderlo di slancio tra le sue  braccia
e crovilo de baxi in sce-o faccin.”                                e coprirgli il faccino di baci.”

o come scrive nei Diari: “Non portare la tua  tristezza in mezzo alla gente; il primo bimbo te la può ferire
col suo grido gioioso”;

- altro tema ancora: scenette di vita vissuta, semplici ma autentiche, colte al volo (col finale appena letto):

Consolazion                                                 Consolazione
Verso seja, pe-a stradda, a-o vento freido                   Di sera, per via, col vento gelido
un organin stonòu                                            un organetto stonato
o s’inzegnava de sunnà da lè;                           ce la metteva tutta per suonare da solo;
un povòu diao tutt’asberoffòu,                         un povero diavolo male in arnese
o domandava a-i pochi che passava.                           chiedeva l’elemosina ai rari passanti.

E là in sce-o carettin,                                       E nel transitargli appresso
ho visto in to passà,                                         ho intravisto sul carrettino
gh’èa un figgèu piccin ch’o se demoava.                      che c’era un bambinello che si divertiva.
A dividde co-i atri a vitta dua                           A condividere con gli altri la vita di stenti
un povòu azenin ligòu davanti                           c’era davanti un asinello che trainava
o cazzeiva d’in pè.                                                      che faticava a restare ritto in piedi.

Me son ammiòu in gio:                                     Ho dato un’occhiata in giro:
da ’na parte i palassi sigillae,                            da un lato palazzi ben chiusi,
dall’atra o panoramma da çittae                                   dall’altro il panorama della città
desteisa verso i monti                                      dov’erano già accesi i primi lampioni.
dove brillava zà i primmi fanae.                        distesa verso i monti.                                    

O visto l’ommo andà da-o so piccin,                           Ho visto l’uomo avvicinarsi al suo bambinello
piggiàselo in te brasse un po d’asbrio               prenderlo di slancio tra le braccia
e crovilo de baxi in sce-o faccin.”                                e coprirgli il faccino di baci.

- e non possiamo assolutamente non accennare al tema della bellezza del paesaggio, sovente descritto e vissuto come un luogo dell’anima, come nella famosissima Boccadaze, una quartina della quale è stata giustamente murata al “Belvedere Firpo”:

                               O Boccadàze, quande in ti se chinn-a                               
                      sciortindo da-o borboggio da çittae,                         
                               s’à l’imprescion de ritornà in ta chinn-a                            
o de cazze in te brasse d’unna moae.

Boccadàze                                                     Boccadasse
“De votte succede che tra onda e onda                        Capita a volte che tra un’onda e l’altra
se stende comme un’improvvisa calma;                        si formi come una bonaccia improvvisa;
deslengua e sc-ciumme là vixin a-a sponda                  scioglie le schiume presso la riva
e in te l’aia impregnà de bon arsilio                              e nell’aria impregnata di arsura
no resta che un silensio un po stupio.                non resta che uno stupore silenzioso.
A poco a poco sento nasce in gìo                                Poco alla volta sento sorgere intorno
voxi velae, poi sbraggi de figgèu,                                 voci velate, poi grida di fanciulli,
chi scava in te l’aenin, chi zèuga allèa,              chi scava nell’arena, chi gioca a nascondino,
chi travaggia a  ’na barca, chi a  ‘na rae;                      chi lavora a una barca, chi a una rete;
unna galinn-a a crocca in sce ’na proa,             una gallina si crogiola su una prua,
un’atra a pitta l’aiga da-a scuggèa.                               un’altra becca le alghe sugli scogli.
Dormiggia un gatto in meso a due bibbinn-e,                Un gatto se la dormicchia tra due tacchine,
pisaggia unna veggetta sorva a un scain;                       una vecchietta sonnecchia su uno scalino;
chi èuggezza da un barcon, chi sta in sce-a porta          chi occhieggia da un barcone, chi sta sull’uscio
a gòdise l’odò do vento maen;                         a inebriarsi dell’odore del vento marino;
chi tegne o chèu in te rèuze, chi in te spinn-e,               chi ha il cuore fra le rose, chi fra le spine,
chi in mille moddi a vitta se conforta.                chi accetta comunque la vita che ha.
O Boccadàze, quande in ti se chinn-a                                   O Boccadasse quando si scende da te
sciortindo da-o borboggio da çittae,                         uscendo dal trambusto cittadino,
s’à l’imprescion de ritornà in ta chinn-a                              si ha l’impressione di tornare nella culla
o de cazze in te brasse d’unna moae.                                    o di ricadere in braccio alla mamma.
Pà che deslengue un po l’anscia da vitta                       Sembra che sciolga un po’ l’ansia del vivere
sentindo comme lì seggian fermae                                gustando come lì si son fermate
ne-a bella intimitae da to marinn-a                               nella piacevole intimità della marina
a paxe antiga e a to tranquillitae.                                  la quiete antica e la tua tranquillità.
Pà che se pòse un’improvvisa calma                            Pare ristare un’improvvisa calma
fra onda e onda anche dentro a-o chèu                        ma non appena ti giriamo le spalle
ma appenn-a te se gia torna e spalle                            ecco che pronta giunge una nuova ondata
ecco che arriva pronta a nèuva ondà
e torna o bollezumme in meso a-o mà.”                       e torna l’agitazione in mezzo al mare.”

- infine, la considerazione, pacata e pur dolorosa, sulla vita che, come quella di o fiore in to gotto, a poco a poco, se ne va, si consuma lentamente, pur tra qualche repiggio, cenno di ripresa, barlume di vita nella libertà e di respiro vitale; o quella arcinota dell’ochin che si sa destreggiare tra le onde, in attesa –  forse? – di un’era nuova di vera libertà:

L’öchin                                                          Il gabbiano
“Ecco, pe-a fosca marinn-a                                         “Ecco, per la fosca marina
un’atra onda a s’avansa;                                              s’avanza un’altra onda,
a gonfia, a s’adrissa, a s’inarca                        si gonfia, si raddrizza, si inarca
comme unna chiggia de barca,                         come un chiglia di barca,
pà che a se-o vèugge aberà.                                        pare che voglia agitarsi.
Ma lè, tranquillo e beato,                                             Ma lui, tranquillo e beato,
con a caressa de ae                                         con la leggerezza delle sue ali
o te ghe scuggia de dato.                                             ci scivola sopra.
Poesse fà comme l’öchin                                             Potessi far io come il gabbiano
pe ogni onda che arriva                                               e sollevarmi un pochino
arsame sempre un pittin.”                                            ad ogni onda che arriva.

L’ho già ricordato, ma intendo ripeterlo anche qui. Nel 1960, a Torino, Einaudi pubblicò ‘O grillo cantadò (ch’era già stato pubblicato nel 1931 dal “Circolo della Tarasca”) e altre poesie a cura di vari autori tra cui Mario Boselli (curatore nello stesso anno, a Genova, per Di Stefano dell’antologia Poesia dialettale genovese, dal secolo XVI ad oggi) e con una traduzione dal genovese a cura di Giovanni e Guido Sechi; nel 1974 la 2° edizione. Sempre il sentimento lirico di Firpo racchiuso nella preziosa conchiglia del dialetto genovese, semplice – lo ripeto – ma accurato, si snoda sulle considerazioni che egli manifesta ed esprime in versi meditativi: e ci dice di come ogni cosa umana sia caduca e destinata a passare (pensava anche al Fascismo?); di come riflettere – e riflettere sul destino dell’uomo – sia l’unica forma di saggezza; di come la gioia che consola l’uomo, egli la possa ricercare e la possa ritrovare nelle piccole, piccolissime cose; ed ecco, siamo nel 1923, come le elenca nei Diari:

Tutte le cose del mondo hanno la loro storia.
Anche il più umile filo d’erba ha la sua storia da raccontare.
Ascoltandolo si potrebbe sentire tutte le sue vicende.
Il primo raggio di sole.
Il brivido notturno.
La rugiada.
La canzone del grillo.
Il profumo del fiore.
L’offerta alle mandibole dell’insetto affamato.
La lucciola, lanternina della notte.
Il profilo delle formiche che hanno grandi città.
.La pioggia.
La scalata della lumachina che voleva andare in cielo.
Il caldo.
La siccità.
La falce.
(20-9-1923)

E ancora di quanto sia sacra ( laicamente, ma anche un po’ francescanamente) la vita, anche se per quasi tutti gli uomini si riduce ad essere impasto di tristezza e sofferenza più che di gioia e di allegria. Vi propongo quell’autentico capolavoro che è Ai martiri di Cravasco: termina con l’eco potente della natura - Dio è assente - che continua a chiamare i martiri là in ta paxe di monti:

Ai martiri di Cravasco                                              Ai martiri di Cravasco
“Quello strazetto da crave                                           “Quella scorciatoia da capre
fra stecchi nùi e spinoin                                    fra rami secchi e cardi
che verso a çimma o s’asbria,                          che s’inerpica verso la cima,
a stradda a l’è ch’àn battùo                                         è la strada che hanno percorso
in quella tetra mattin.                                        quella tragica mattina.

Cianzéivan finn-a i rissèu;                                            Piangevano perfino i sassi,
cianzéiva l’aegua in to scùo                                          piangeva l’acqua nelle tenebre
a-o fondo di canaloìn…                                              in fondo al precipizio
Me pà sentì i sò passi                                      Mi sembra di udire i loro passi
luveghi comme un tambuo;                               cupi come un tamburo;
lenti, che scùggian indietro                                           lenti, mentre scivolano all’indietro
co mutilòu in sce-e spalle;                                            col ferito sulle loro spalle;
i veddo cazze, sta sciù...                                              li vedo cadere, rialzarsi
perché stan sciù se fra poco                             perché si rialzano se fra breve
cazzian poi tutti lasciù?...                                             cadranno tutti quanti lassù?...

Han ciammòu Dio in aggiùtto                           Ad ogni battito dei loro cuori
con ogni colpo do chèu                                               hanno invocato l’aiuto di Dio
pe lò, pe-a sò moae, pe-i figgèu,                                 per sé, per le loro mamme e i loro figli
ma o fì o se faeto ciù cùrto                                          ma il filo di speranza s’è accorciato
e a raffega a-a fin a l’à streppòu.                                 e una raffica alla fine l’ha spezzato.

Perché in te grandi ingiustizie                            Perché nelle grandi tragedie
Dio o l’è sempre lontan?                                             Dio pare sempre così assente?

E çerco in gio ai mae passi                                          E cerco attorno ai miei passi
se un segno o fosse restòu;                                          se sia rimasto un segnale,
no gh’è che i pochi fioretti                                           non ci sono che i pochi fiorellini
che in sce-o sente n’han lasciòu,                                  che hanno lasciato sul sentiero,
poi un strassetto de fèuggia                                          poi un rimasuglio di foglia
secca ch’a sbatte a unna ramma...                               secca che sbatte contro un ramo…

Dunque o dolore o se perde                            Allora il dolore si sperde
come da sabbia in to vento?...                         come sabbia nel vento?...

Ma in ta gran paxe di monti                              Ma nella gran pace dei monti
se sente l’eco de l’aegua                                             si sente l’eco dell’acqua
lontan ch’a-i ciamma, ch’a-i ciamma...”                       lontana che li chiama, li chiama…”

E il senso della morte, intesa come fatto inspiegabile e incredibile (saià proprio veo), lo sentiamo forte nelle poesie che propongo alla vostra sensibilità:

Ciammime un po unna mattin                      Chiamami un po’ un mattino
“Quande in te belle matttinn-e                          Quando nelle mattine serene
limpide de primmaveja                                     e limpide di primavera
che lungo e spiagge marinn-e                           in cui lungo le spiagge marine
pà unna farfalla ogni veja;                                            ogni vela sembra una farfalla,
e-o sò o l’inonda de luxe                                             e il sole inonda di luce
l’anima o mà e-e campagne,                            l’anima il mare e la campagna
e pàn sospeise in te l’aia                                              e nell’aria sembrano sospese
insemme a-e nuvie e montagne;                                   insieme nubi e montagne;
l’antigo dubbio o me torna:                                          mi torna il dubbio antico:
saià proprio veo che un giorno                         sarà proprio vero che un giorno
s’asmortià tutto pe mi?                                    per me si spegnerà tutto?

Figgèu, che pe-e coste di monti                                   Fanciullo, che per le coste dei monti
ti beivi a-e fresche vivagne,                                          bevi alle fresche sorgenti
appenn-a fiorisce e campagne,                         appena la campagna è in fiore,
ciammime un po unna mattin.                           chiamami un po’ un mattino.
Chissà che da qualche rianello                         Chissà che da qualche ruscelletto
da qualche ramma de pin                                             o da qualche rametto di pino
no te risponde un pittin.”                                             non ti risponda un pochino.”

Comme e onde do gran ma...                                    Come le onde del grande mare...
“Unn’ondetta ch’a corriva                                           Una piccola onda che correva
tutt’allegra e un po svaia                                              bell’allegra e un po’ distratta
con sprescietta verso a riva                                         in tutta fretta verso la riva
per andaseghe a-accoèga                                            per andare a riposarsi
a no vedde quella nescia,                                             per non vedere quella insulsa
che in te un punto tutto ghe remescia                che si rimescola in un punto
e in ta smania do corri                                     e per la smania di correre
proprio là a te va a fini!...                                            va a sbattere proprio là!…

O l’è un schèuggio, a se gh’infranze                             È uno scoglio, e lì si infrange
e a se mette fito a cianze.                                             e subito scoppia a piangere.

Tutti i so cristalli fin,                                         Tutte i suoi spruzzi lucenti,
e so perle, i gingillin,                                        le gocce, i ricamini,
e collann-e, i so pendin,                                               le collane, e gli orecchini,
i diademi, i brassaletti,                                     i diademi, i braccialeletti
s’arriguelan, se ne van                                     rotolano, se ne vanno
e deslenguan, pe cammin                                             e si ciolgono durante il percorso
in sci flutti smeraldin...                                      sui flutti smeraldini…

Doppo le n’arriva unn’atra                                          Dopo la prima ne segue un’altra
e a l’incontra a stessa fin;                                             e va incontro alla stessa fine,
poi unn’atra, unn’atra ancon                            poi un’altra, e un’altra ancora
nè diverso o l’è o destin!...                                          e il loro destino è lo stesso!

Coscì va l’umana gente                                               Tale è il destino degli uomini
comme e onde do gran ma;                                         simile alle onde del grande mare;
tutti andemmo a sbatte là                                             tutti andiamo a sbattere là
ma o motivo o no se sa.”                                             ma non se ne conosce la ragione.”

Raccolte da Vito Elio Petrucci e da Cesare Viazzi, nel 1968, per Scheiwiller, Milano, esce Cigae e nel 1972 Basigo, pubblicato a Pisa (libretti di Mal’aria). In Cigae è la musica assordante, non più delle marce e delle fanfare delle adunate, ma delle cicale sotto le stelle e, sì, si può tornare a cantare: la guerra è davvero finita...

Cigae                                                             Cicale
Gran maaveggia l’è staeta quella seja                           Che meraviglia è stata quella sera
che in ti olivi impregnae do sò marin,                che tra gli olivi impregnati di sole marino,
sott’a-e stelle, e çigae àn repiggiou                              sotto le stelle, le cicale in ripresa
torna a cantà...                                                            riprendono a cantare
                                                                                         
Nel 1981 l’editore Pirella, a cura di Michele Dolcino e illustrato da Attilio Mangini, pubblica Firpo racconta Genova e nello stesso anno Bruno Cicchetti, critico di vaglia e storico della Letteratura italiana, per lunghi anni Preside del Liceo Scientifico Statale “E. Fermi” a Sampierdarena, insieme a Eligio Imarisio, saggista e studioso della società otto-novecentesca oltre che romanziere, curano, corredata da una ampia documentazione, La poesia dialettale genovese, edito da S. Marco dei Giustiniani, Genova. Gli stessi autori, Cicchetti e Imarisio, per lo stesso editore, nel 1978, avevano già dato alle stampe Tutte le poesie di Edoardo Firpo. Anche se l’ho già rilevato, è importante notare e ribadire con il Cicchetti che la poesia di Firpo non risente tanto del clima poetico del suo tempo né l’influsso degli Sbarbaro e dei Montale, quanto piuttosto la sua poesia si rifà a “moduli pascoliani e crepuscolari”, e dice sempre il Cicchetti, “per risalire sino all’Arcadia e al Tasso”. Certo nella poesia di Firpo non c’è l’intellettualismo vuoto, non ci sono complicazioni o infingimenti (e lo si sentì anni fa nelle letture così partecipate di Luigi Cornetto, anch’egli come Firpo, poeta dialettale; e lo si può sentire oggi nelle letture filologicamente attente di Maria Vietz e di Franco Bampi), c’è anzi linearità e immediatezza: caratteristiche che i due lettori sanno far cogliere e sanno proporre con la loro esemplare lettura. Il dialetto, strumento che Firpo usa al meglio e, pur con quello sparso tocco di obsoleto, domina da par suo e come nessun altro, gli serve per suggerire ai nostri cuori e rappresentare davanti ai nostri occhi, come scrive Elio Andriuoli, altro critico e poeta finissimo, “il suo mondo semplice e intenso, fatto di cose concrete e profondamente amate e, proprio per questo, espresse con verità e senza retorica”, senza mai dimenticare, aggiungo io, quella sottile insofferenza per la stagione politica in cui si trovò a vivere e soffrire nella speranza di potersi librare, come poeta e soprattutto come uomo, verso la libertà.

Conclusione
Chi legge (e Firpo leggeva), chi pensa (e Firpo era intensamente dedito al pensare), chi è poeta (e Firpo era poeta di tempra autentica) fa paura a chi comanda. Ricordate nel Julius Caesar di William Shakespeare? Cassius, proprio come il nostro Firpo, “has a lean and hungry look” (ha un aspetto magro e famelico), “he reads much” (è tutto dedito alla lettura: libri da leggere si portava nello zaino, invece del cibo che gli sarebbe stato pur necessario), “he thinks too much” (non fa che pensare e riflettere: e il suo Diario ne è la dimostrazione palese) ed è Cesare che trae le conseguenze e conclude: “such men are dangerous” (uomini di tal fatta costituiscono un vero pericolo, sono molto pericolosi: la loro vera forza non è fisica, sta tutta nelle idee): tutto questo nella seconda scena dell’atto primo; e nella terza scena dell’atto terzo Cinna, il poeta, viene fatto a pezzi dalla folla infuriata: ha un bel dire che lui non è cospiratore, ma solo e soltanto un poeta. A Firpo, ricordate, che dichiarava di essere un “poeta” seguendo il consiglio di un compagno di prigionia: “e digghe che t’e un poeta”, successe come al Cinna scespiriano: fu maltrattato, se non torturato, e sonoramente picchiato proprio perché era poeta.  Lasciamo la parola direttamente a Firpo che riporta nella Storia di un diario che mutò padrone (edizione ligure dell’Unità, 6 marzo 1956): “Poeta? – mi grida fra i denti stretti (il maresciallo delle SS che lo sta interrogando) – Poeta? E mi scaraventò un ceffone con la sua mano enorme”. In seguito fu liberato da un sottufficiale tedesco. Chi legge, chi pensa, chi è poeta è uomo di cultura e come tale non può non far paura ai regimi dittatoriali perché non si piegherà mai né mai accetterà di essere servo delle ideologie del potere e di potere. Per tutto ciò Edoardo Firpo fu perseguitato e fu vittima di quel nazifascismo che aveva sempre contrastato: non solo nelle lettere che scriveva, nel suo Diario personale e in poesia, ma, se pur non platealmente, anche nei fatti.  Era contro i soprusi e la sopraffazione, soprattutto era contro la guerra e scrisse una commossa invocazione, più che una semplice poesia, alla pace perché... perché la guerra (e lo vediamo e lo viviamo anche oggi)

“che scempio che n’àn faeto...                         che disastro ne han fatto…
a porta de l’inferno e de rovinn-e”.                              porta dell’inferno e di rovine.

E oggi, mentre in varie parti del mondo imperversa la guerra “che scempio che n’an faeto...”, suonano ironici e tutt’altro che maldestri i versi:

“Nisciùn se scorde quello che l’e staeto                       Non dimentichi nessuno ciò che è stato
oggi che a Paxe a l’e torna insidià..”.                            oggidì che la Pace è ancora in pericolo…

Tutta da leggere, anche nella nostra epoca, e meditare l’invocazione Pe-a paxe minaccià:

Pe-a paxe minaccià                                       Per la pace minacciata
“Paivan sinsae d’argento i bombardè                           “I bombardieri parevano zanzare d’argento
lasciù in to çe seren,                                        lassù nel cielo sereno,
mentre sganciavan bombe                                           mentre sganciavano bombe
da Rùo a Corniggen.                                       da Rivarolo a Cornigliano.

Oh...quello çe seren!... stradda do sò!...                      Oh… quel cielo sereno… strada del sole!...
lago queto do falco!                                        lago tranquillo del falco!
giardin de rondaninn-e!...                                            giardino delle rondini!...
che scempio che n’àn faeto...                           che disastro ne han fatto…
a porta de l’inferno e de rovinn-e.                                porta dell’inferno e di rovine.

De neutte, doppo l’urlo de sirene,                                La notte, dopo l’urlo delle sirene,
bruxiava tutta Zena;                                         Genova era tutta un incendio;
finn-a in sci monti tenebrosi, i roghi                              fin sopra i monti, i roghi
completavan a scena.                                      coronavano lo spettacolo.

Chi l’aviae mai ciù dito a quelli tempi                Chi avrebbe mai detto allora
che andavo ancon a-a schèua,                         quando andavo ancora a  scuola
che int’un giorno lontan,                                              che un giorno lontano
a casa de l’infanzia a sa distruta                                   la casa della mia infanzia andasse distrutta
da un tremendo uragan                                    da un terribile uragano
de bombe e de spezzoin!                                             di bombe e detriti!

Nisciùn se scorde quello che l’e staeto             Non dimentichi nessuno ciò che è stato
oggi che a Paxe a l’e torna insidia...                             oggidì che la Pace è ancora in pericolo…

Donne, che anchèu ve unì pe lancià un crio                  Donne, che unanimi oggi lanciate un grido
d’allarme e de difeisa                                       d’allarme e di allerta
urlaelo forte a -o mondo o vostro crio              lanciate al mondo un grido alto e forte
a chi l’à da sentì;                                                         a coloro che lo devono scoltare;
urlaelo forte a -o mondo o vostro crio.”                       anciate al mondo un grido alto e forte.”


Un cattedratico genovese e un caro amico che non è più, Franco Croce, in una introduzione su Firpo ebbe a rivendicare “una originalità, un risalto autonomo e sicuro”, non tanto limitati alla letteratura dialettale, ma – come anche qui si è sostenuto e si è cercato di dimostrare – “nel quadro storico della più importante lirica novecentesca”. Si può così davvero chiudere la presente analisi
con questo pensiero di Croce che coglie ed esalta l’essenza lirica del nostro autore: “La sua (i.e.: di Firpo) poesia nasce spesso da una cronaca modesta ed ha bisogno sempre di un affettuoso rapporto con realtà locali e di una complice simpatia del lettore per i sentimenti e i paesaggi che la ispirano”.




A festa de San Giambattista”                                 La festa di S. Giovanni Battista
                                                                       (traduzione di Carlo Cormagi)

Quanti figgêu giavan                                        Quanti ragazzi in giro
pe-e stradde e i caroggin                                             per strade e vicoletti
con de latte ammacchae                                              con barattoli ammaccati
caffetee e tianin,                                                          caffettiere o tegamini,
a domandâ palanche                                        a domandar soldi
pe-o santo da çittae!...                                    per il santo della città!...

– Ghe mettei ninte pe San Giambattista! –                    – Niente per S. Giovanni Battista?
– Piggiae, gh’ei meza motta –,                         – Prendete, mezza lira.
E tutti a fase sotta                                                        E tutti a farsi sotto
allegri, invexendae,                                          allegri, entusiasti,
e poi a fâ tombarelle,                                       e poi a far capriole
(che diai descadennae!...)                                            (che diavoli scatenati!...)

Ancon me pâ de veddive                                             Ancora vi rivedo
belli figgêu da Foxe,                                        ragazzini della Foce,
chêutti, rostii da-o sô,                                      cotti, bruciati dal sole,
a strêuppe, mezi nui,                                        a frotte, mezzi nudi,
tutti desbandelae.                                                        tutti sbrindellati
coa testa asberuffâ,                                         con la testa arruffata,
quande sott’ai barcoin                                     quando sotto alle finestre
ve metteivi a cantâ:                                          cominciavate a cantare:

“Cacciae e legne da bruxiâ                                          “Dateci la legna da bruciare
dunque andièi a ca do diao,                                         altrimenti andrete a casa del diavolo,
a ca do diao se ghe sta mä,                                         a casa del diavolo ci si sta male,
cacciae e legne da bruxiâ,                                            dateci legna da bruciare,
de careghe, di careghin,                                               sedie e seggiolini,
de banchette, di banchettin,                             panchine e panchettine,
de spassoie, di spassoiin,                                             scope e spazzolini,
daene e legne pe fâ o fòu…”                           date la legna per il falò…”

Belli figgêu da Foxe                                         Ragazzini della Foce
a m’è restâ in te l’anima                                               nel cuore mi è rimasta
a vostra fresca voxe!...                                    la vostra fresca voce!...

A seja poi da festa che invexendo!                              La sera della festa, che confusione!
Balloin areostatici coa spunzia                          Aerostati con il fornello
a spirito, e comete sciù in to çê,                                   a spirito, comete in alto nel cielo,
e poi ciù tardi furgai, tricchetracche,                             e poi più tardi petardi e tricchetracche,
crocchette, scoriserve da fâ criâ                                  bombette,cacciaserveda far gridare
e donne in sci scalin, e pesci friti,                                 le donne sugli scalini, e pesci fritti,
e imbriaeghi in strambaelon e imbriaeghi driti.   e ubriachi traballanti e ubriachi in piedi dritti.

Baracche e baracchette tutte frasche                            Baracche e baracchette tutte di frasche
de pin e de castagna e lampionetti,                               di pino e di castagno e lampioncini,
ghirlande de papë e organetti                           ghirlande di carta e organetti
de quelli coa maneggia destonae,                                 di quelli a manovella stonati,
lumetti in sci barcoin e in sce-e terasse             lumini sulle finestre e sui terrazzi
feste da ballo e figge ammalocchae.                             feste da ballo e ragazze palpeggiate.

E poi o fòu. o grande fòu a-o mâ,                                E poi il falò, il grande falò al mare,
in mezo a-a nêutte fantasioso fêugo                              fuoco fantastico nel cuore della notte
che l’aegua a rifletteiva mäveggiâ.                                che l’acqua rifletteva con stupore.



Aggiunta alla poetica di Edoardo Firpo

Edoardo Firpo, primo di sei figli, nacque nel 1889 e morì nel 1957. Dal suo Diario emerge tutta la sua misoginia e la sua sessuofobìa, testimoniate anche dal difficile e contrastato rapporto con la madre morta nel 1942. Allo scoppio della Prima Guerra Mondiale, a causa della sua gracile costituzione, venne assegnato ad un deposito prima a Genova, poi ad Asti e quindi a Torino ove rimase fino al concludersi della guerra. Quando, nel 1919, fece ritorno a Genova, si unì ai letterati e pittori genovesi del gruppo “All'insegna della Tarasca”. Possedeva una personalità scontrosa, non disdegnava vivere isolato, ma, una volta libero dal suo lavoro di accordatore, gli piaceva dedicarsi al suo hobby preferito: la pittura (pastelli e disegni) “con un gusto tra liberty e divisionista” e raggiungendo un validissimo livello tale che, nel 1930, l'Accademia Ligustica di Belle Arti lo nominò “Accademico di merito”. Oppure, caricatosi dell'immancabile zaino contenente qualcosina da mangiare (poco, però, per sé e per i suoi amatissimi... gatti!) e zeppo invece di libri (Petrarca e Leopardi su tutti), affrontava lunghe solitarie passeggiate, tutto teso ad ascoltare i labili fruscii e i lieti rumori della Natura e, nel contempo, ad osservare animaletti, erbe e fiori immerso nel silenzio e lontano dalla rumorosa città. Con la solitudine amava intensamente il silenzio tanto da lasciar scritto: “Sarei lieto se dopo di me si facesse subito silenzio”. Nel 1945 i fascisti lo arrestarono e venne liberato quando ormai la Liberazione era prossima. Nel 1946, anche se non di provata fede marxista, si iscrisse al P.C.I. presso la sezione Tito Nischio in via Casaregis e iniziò a collaborare con L'Unità rimpinguando un poco i suoi miseri guadagni di accordatore presso privati e scuole comunali genovesi.
Le sue immagini poetiche, nella loro secchezza e semplicità, assurgono a veri e propri “correlativi oggettivi” del suo stato d'animo, della sua una sofferta, malinconica e solitaria interiorità e si fanno altresì elementi costitutivi di una personalissima metafisica che, sia chiaro, contribuisce al superamento del bozzettismo ottocentesco tipico della poesia dialettale: indubbiamente, il periodo tra le due guerre nella poesia in lingua genovese e/o ligure vede primeggiare la presenza di Firpo.
C'è chi, tra i critici, ha colto nelle liriche di Firpo sia pur lievi sfumature gozzaniane (Firpo aveva conosciuto Guido Gozzano a Genova) e flebili toni di impressione pascoliana, chi particolari echi della tragicità montaliana, chi ancora quel disperato e disperante senso di solitudine e vagabondaggio che, in qualche misura, lo vuole assimilato a Ceccardo Roccatagliata Ceccardi. Dal mio personale punto di vista, quello ch'io definisco “firpianesimo” si connota anche per una certa, pur se limitata, sensibilità di natura leopardiana, cioè del poeta a lui particolarmente caro: egli, infatti, si lascia ispirare dal “particolare o quasi-particolare” – che possono essere, per fare qualche esempio, il filo d'erba o il seme del cardo, la farfalla, l'allodola o il gattino morto, ma anche il mare o il cielo (Quanti, quanti i particolari nelle sue liriche! Quanti i particolari da cui il poeta si lascia incantare!) – che mira e tende a trasformarsi nell'eliotiano “correlativo oggettivo” del “quasi-universale”, imbevuto o intriso di un fuggevole e impreciso sentimento religioso che, tuttavia, non giunge né raggiunge l'eterno.
Nel secondo volume di “La letteratura ligure. Il Novecento” (edizioni Costa & Nolan, Genova 1988), il critico, poeta e traduttore imperiese Cesare Vivaldi (1925-1999) dedica un ampio e ben strutturato studio, suddiviso in quattro sezioni, a Edoardo Firpo, per lui “teneramente paesaggistico e nostalgico” oltre che “poeta discontnuo” E Firpo, sostiene l'autore del saggio, “al suo meglio … è vero e alto poeta, capace di un'intensità di voce stupenda”: in gran parte sulla stessa linea di pensiero anche Montale e Pasolini (cfr. 1. Un poeta discontinuo, p. 104). Trattando della vita del poeta genovese, richiamandosi in particolare al Diario che Firpo ci ha lasciato, il critico afferma che “...la vita di Firpo è interamente calata nella poesia: dato anzi, per dir meglio, che la poesia è stata da lui in un certo senso delegata a vivere per lui.” (cfr. 2. La vicenda umana, p. 105). Sempre di Vivaldi l'inquadramento che coglie, lo ribadisce il critico, come concetto fondamentale della poesia firpiana “il sentimento della morte, del fluire irrevocabile e impietoso del tempo e delle cose nel tempo, la loro continua metamorfosi fino alla finale meta” (cfr. 3. Le prime opere, p. 109). Concludo ricordando che Vivaldi ha ragione nel rilevare come Firpo riesca a pervenire “alla cristallina purezza, a un'atmosfera veramente e personalissimamente metafisica nelle Ultime poesie”. Ed è proprio in questi componimenti che la sua poesia si fa puro suono e pura luce.  (cfr. 4. Ciammo u martinpescòu, p. 115).

...e su altre voci e presenze poetiche focesi.
La Foce è un quartiere storico della Superba che *si affaccia a est del Porto e della Fiera di Genova e che *si estende nella piana del Bisagno (Bis amnis =  in cui si riversano due torrenti) tra i versanti occidentali dell'altura di Albaro e la sponda sinistra del torrente, che venne totalmente ricoperto nel tratto che traversa il quartiere.
A evocare il quartiere della Foce in cui abitava, non fu solo Edoardo Firpo (Genova, 20 aprile 1889 – Genova, 10 febbraio 1957), che era poeta e pittore, che, come già suo padre, esercitava il mestiere di accordatore di pianoforti e che abitava proprio in Via Casaregis 12. Oltre a lui, infatti, hanno descritto, cantato  o citato il quartiere della Foce:

*Mario Cappello, cantante, l'autore al quale sono anche attribuite le parole della canzone “Ma se ghe penso” (1925) – da assegnarsi con più probabilità al grande autore della canzone genovese Costanzo Carbone (1884-1955) – messa in musica dall'ottimo pianista e compositore Attlio Margutti. Si tratta di un vero e proprio inno denso di amore e carico di nostalgia per Genova, la patria lontana per chi è stato costretto ad emigrare. Com'è noto, è diventato il nostalgico canto dei Genovesi emigrati verso la lontana America del Sud, in particolare l'Argentina.
Sono svariati i cantanti e gli artisti che si sono misurati e hanno dato la loro personale interpretazione della melodiosa e malinconica canzone genovese: dall'inimitabile Gilberto Govi (1885-1966) ai bravissimi Mina, Antonella Ruggiero e Massimo Ranieri e ai conduttori televisivi, attori e comici Luca Bizzarri e Paolo Kessisoglu, abilissimi e divertenti intrattenitori.
Il quartiere della Foce è richiamato nella seconda strofa, poi ripetuta:

“Ma se ghe penso”                                            “Ma se ci penso
Ma se ghe penso allôa mi veddo o mâ,           Ma se ci penso, ecco che rivedo il mare,
veddo i mæ monti e a ciassa da Nûnsiâ,         rivedo i miei monti e piazza della Nunziata.
riveddo o Righi e me s'astrenze o chêu,          rivedo il Righi e mi commuovo profondamente,
veddo a Lanterna, a Cava, lazû o mêu...          rivedo la Lanterna, la Cava, e il molo in lontananza...                                                                                                                                                                                       
Riveddo a-a seja Zena inlûminâa,                    Rivedo, a sera, Genova tutta illuminata,                     
veddo là a Fôxe e sento franze o mâ...             rivedo là la Foce e sento infrangersi il mare...

N.B.: Cava, nota spiaggia, frequentata non solo dagli abitanti della Foce, che venne interrata per due ragioni: a) la costruzione della Fiera di Genova; b) il previsto ampliamento del porto.

*I Trilli: famoso duo formato da Pucci (Giuseppe Deliperi, 1942-1997) e Pippo (Giuseppe Zullo, 1948-2007). Sono autori di molte diffuse e amate canzoni in lingua genovese nelle quali non mancano di citare con impeto anche il nostro quartiere della Foce.

Trilli Trilli                                                          Trilli trilli 
Stamme ûn po a sentì,                                        Statemi un po' a sentire,
viätri da Fôxe, chi ve salva                                voi della Foce, chi vi salva
son quelli de Boccädase                                   son quelli di Boccadasse
che sun ciù tarlûcchi de viätri...                       che sono più babbei di voi...

Fôxe de Zena                                                       Foce di Genova
Semmo de Zena,                                                 Siamo di Genova,
semmo da Fôxe...                                 siamo della Foce...

Veddiemu Zena tutta inluminà                          Vedremo Genova tutta splendente di luci
che gran bellezza pe- a Fôxe, pe-u mâ.            è tutta una meraviglia per la Foce, per il mare.
Fôxe ti te a ciù bella Fôxe,                  Foce, sei tu la Foce più bella,
Fôxe ti te a ciù bella de tutta Zena                   Foce sei la più bella di tutta Genova

N.B.: Oggi il figlio di Pippo, Vlady (Vladimiro Zullo) con Zino (Francesco Zino), ha ridato vita a “I Trilli” e cerca di ripercorrere, con successo, la via tracciata dai noti Pucci e Pippo.

*Fabrizio De André (1940-2009) amava profondamente la lingua genovese con le sue origini, derivazioni e sviluppi nell'area mediterranea, collegata e raccordata alle lingue e ai suoni dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo. La riprova è il suo album titolato “Creuza de ma”, tutto cantato in lingua genovese, lingua che in passato era parlata e usata per la navigazione in tutto il bacino del Mar Mediterraneo.
De André visse alla Foce: abitò in Via Trieste, studiò alla Scuola Media Pascoli allora in Via Liri, frequentò in Via Cecchi e zone limitrofe gli amici Bindi, Lauzi, Mannerini, Paoli, Tenco et al. che dovevano dar vita a quella che fu, non del tutto propriamente, considerata la “Scuola genovese dei canatutori”. Una delle canzoni dedicate a Genova, secondo me, con verità e forza, con amore e furore, reca il titolo di “A Domenega” e richiama la Foce in un verso crudo e irriverente che, certamente, si rifà alle cosiddette “donne di vita” che un tempo, numerose, circolavano nella zona:

… a Fuxe cheusce a sciaccanuxe”                   … alla Foce cosce a schiaccianoci

*Bruno Lauzi (1937-2006) appartiene alla Foce. Anch'egli si incontrava in un bar di Via Cecchi con gli amici, unici e speciali davvero, tutti “focesi”: Riccardo Mannerini (1927-1980), Umberto Bindi (1932-2002), Gino Paoli (1934-viv.), Luigi Tenco (1938-1967), Fabrizio De André (1940-1999), et al. Inoltre frequentò l'austero e prestigioso Liceo Classico “D'Oria” ed ebbe, al Ginnasio, come compagno di banco per un anno Luigi Tenco. Quest'ultimo passò poi al Liceo Scientifico “Cassini” e, unico sul oltre 250 privatisti, superò l'esame di Maturità sostenuto presso il “Convitto Colombo”. Scrive Lauzi: “Vedere la Foce, che i foresti non capiscono perché si chiami così, e scoprire che è a causa di un torrente che a un tratto scompare coperto da viali e giardini” e queste sue note sono da abbinare alle immagini e alle parole del recitativo “La nostra spiaggia”. Ecco come si espresse Lauzi sul suo quartiere la Foce, lui che alla Foce visse e passò gli anni belli della sua giovinezza con gli amici “speciali” sopra citati: “Ricordo che c'erano solo i relitti delle chiatte da sbarco: quello era il nostro parco-giochi di chi sognava l'avventura e lungo tutta la Foce l'acqua era limpida e pura e sugli scogli i pescatori avevano la mano sicura: e così tanti anni fa era il nostro quartiere...”.

P.S.: Si veda anche quanto scrive Stefano Verdino a proposito della “scuola dei cantautori genovesi” a pag. 319 del citato secondo volume di “La letteratura ligure. Il Novecento” (edizioni Costa & Nolan, Genova 1988).




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